“Allenamento, allenamento, ‘un mi posso fermare che altrimenti i muscoli mi si raffreddano…”. Così esclamava Gino Bartali quando i tedeschi tentavano di fermarlo, e tirava dritto con l’aria da campione toscanaccio che è sul punto di mettere a segno un’altra delle sue grandi vittorie segrete, fino a poco tempo fa non ancora popolari.
Sono queste le vittorie che gli hanno guadagnato il titolo di “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, il sacrario della memoria di Gerusalemme, proprio ora, nella settimana dei mondiali di ciclismo che si stanno svolgendo a Firenze, nella sua terra.
Durante i suoi presunti allenamenti, il ciclista diventava il numero uno di una vera e propria staffetta clandestina attraverso le campagne umbre e toscane, trasportando documenti falsi avanti e indietro, da Assisi a Firenze, nascosti sotto il telaio della sella e nella canna della bicicletta.
Nato nel 1914 a Ponte a Ema, vincitore di tre Giri d’Italia e due Tour de France, tra il 1943 e il 1944 Bartali fece parte di una rete di salvataggio gestita da Elia Angelo dalla Costa, arcivescovo di Firenze e suo amico, che ne aveva celebrato il matrimonio, e dal rabbino Nathan Cassuto.
“Così, celandoli sotto nuova identità, ha salvato settecento o anche ottocento ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento”, ha raccontato il figlio Andrea Bartali ricordando come il padre non amasse parlare delle sue attività sotto i tedeschi, poiché – diceva - “il bene si fa ma non si dice. Non è bene speculare sulle sventure altrui”; discreto e assolutamente schivo, non volle che venisse documentato nulla di quello che aveva fatto.
Solo la figlia del rabbino Cassuto, aiutato dallo stesso Bartoli a sfuggire alle grinfie naziste, rivela che, in una commossa conversazione con lui, venne a conoscenza delle coraggiose imprese perpetrate durante l’occupazione tedesca. Imprese riportate nel libro Road to Value, finalmente approdato in Italia con il titolo La strada del coraggio – Gino Bartali eroe silenzioso, e imprese stampate a caratteri di fuoco nella memoria dei sopravvissuti: uno di questi, Shlomo Pas, allora Giorgio Goldenberg, conserva con orgoglio l’autografo e la bicicletta regalatagli dall’eroe del ciclismo all’età di nove anni. Era il 1941 e ancora non avrebbe potuto immaginare che due anni dopo sarebbe finito a rifugiarsi in un convento, dove, in un secondo momento, sarebbe stato raggiunto dai familiari che erano rimasti nascosti per alcuni mesi nell’appartamento di via del Bandino. Anche l’italiano Renzo Ventura testimonia di come i suoi genitori avessero ricevuto le identità false da un inaspettato corriere clandestino.
Una volta, quando venne fermato ad un posto di blocco, Bartali chiese con fermezza ai tedeschi che lo perquisivano, di non toccargli la bicicletta, poiché le parti che la componevano erano bilanciate in modo da poter acquistare la massima velocità sulla strada.
A coloro che successivamente cercarono di capire le motivazioni che spingevano Bartali ad affrontare simili situazioni, rischiando la fucilazione, lui, cristiano fervente, spiegava semplicemente di obbedire alla propria coscienza. Sapeva di rischiare la vita, certo, come era convinto sempre che la vittoria di un Tour non fosse mai in tasca; per questo alla domanda su come facesse a vincere il Gran Tour, rispose: “Pregare, pregare”. Al miracolo in bicicletta lui credeva fino in fondo.