Riportiamo di seguito il discorso del cardinale Agostino Vallini, vicario generale per la diocesi di Roma, nell’Assemblea inaugurale dell’Incontro internazionale per la pace “Il coraggio della speranza” in corso a Roma ed organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio.
***
Cari amici,
1. A tutti loro un cordiale saluto, espressione di stima e di sincera amicizia, a nome del Vescovo di Roma, il Papa Francesco, e della comunità cattolica di questa città, che a distanza di 17 anni è lieta di ospitare nuovamenteil Pellegrinaggio annuale per la pace dei Leaders religiosi, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio.
2. Siamo a Roma, terra intrisa dal sangue dei martiri della fede cristiana, città a vocazione universale, di arte e di cultura, dove la difesa e la promozione della dignità dell’uomo, della solidarietà e del dialogo tra le religioni hanno casa.
3. “Il coraggio della speranza”: è un tema che ad uomini, non credenti, ma retti e pensosi sullo svolgersi delle vicende umane, suona come un invito a leggere il termine “speranza” quasi come sinonimo di “rivoluzione”; parola che evoca non più le ideologie del novecento, ormai superate, ma un appello al cambiamento profondo, al capovolgimento di valori e di assetti.
Il sistema vigente – essi dicono – è giunto a una crisi senza rimedi: l’economia, l’organizzazione sociale e del lavoro, la qualità della vita dei popoli confliggono con la continuità del sistema stesso. Rivoluzioni come quelle socialiste, ad esempio, oggi sarebbero impossibili: la classe operaia, organizzata in grandi fabbriche, impegnata in un lavoro anonimo e alienante, come quello della catena di montaggio, (almeno in occidente), non esiste più. Essa è sostituita quasi sempre da macchine computerizzate e affidate a competenze diverse. Lo stesso concetto di classe, come pure di massa, non ha più riscontro nella società attuale. Oggi non si parla nemmeno più di popolo, ma di individui, che si aggregano sulla rete, senza conoscersi e senza vere regole. Nell’era tecnologica è possibile trasmettere idee e informazioni con la velocità e l’espansione inimmaginabili solo qualche anno fa, le quali determinano aggregazioni di sconosciuti. Si pensi poi a coloro che detengono il controllo finanziario, i quali possono comandare i flussi di capitali senza mostrarsi, forse anche senza conoscersi.
4. Se dunque questo passato non ha prodotto un cambiamento dei rapporti tra gli uomini che potesse dare sostanza ad una speranza credibile, vuol dire che la speranza non è riducibile a visioni puramente mondane. E’ necessario collegare la speranza, anzi l’uomo stesso e il suo destino, a più alte sorgenti. L’uomo incapsulato nell’immanenza non spiega se stesso, non salva se stesso: l’orizzonte è troppo angusto, le energie sono deboli, il cuore è infermo, se non malato di egoismo o di narcisismo.
Dinanzi alle sfide della post-modernità, in un mondo segnato dalla secolarizzazione e dall’indifferentismo, non vale più né deplorare, né rimpiangere. L’uomo ha bisogno di comprendersi a partire dalla trascendenza, ha bisogno di entrare nel mistero, solo radicandosi in una profonda dimensione di interiorità, solo in Dio può trovare ispirazione e risposte ai grandi interrogativi dell’esistenza, dando significato alla storia.
Le grandi religioni o quanti sono sinceri cercatori di verità, nonostante le differenze, hanno in comune – per così dire – un elemento genetico: sono portatori di una scintilla dell’origine che li sprona a lavorare per la pace e la giustizia tra i popoli[1].
E’ in questa lucida consapevolezza, che non attenua le difficoltà e gli ostacoli, che desideriamo ancorarci come ad un fondamento per il comune operare che favorisca l’unità tra i popoli e la costruzione della pace.
5. Che cos’è dunque il coraggio della speranza? O meglio, per quale speranza dobbiamo impegnarci con coraggio? La nostra speranza “è l’incontro con il Signore di tutti i signori, l’incontro con il Dio vivente e … per questo trasforma dal di dentro la vita e il mondo” (Spe salvi, 4).
In questa luce ci aiuti a riflettere la grande figura di Abramo, padre delle tre grandi tradizioni monoteistiche.
Invitato a “uscire dalla sua terra” per “andare verso” una mèta promessa che si realizzerà in futuro, si sente dire: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome», (Gen 12,2). «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo» (Gn 15, 1).
Qui sta la radice della speranza di Abramo: la promessa si realizzerà, ma la certezza che si realizzerà poggia non su presupposti umani, che ne lascino ragionevolmente presagire il compimento, ma sulla parola di Dio nella quale Abramo deve imparare a riporre completamente la sua fiducia. Dalla fede nasce la speranza.
Ed Abramo «credette in YHWH, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 16, 6). San Paolo dirà che Abramo ha raggiunto qui il livello più alto: “credette, saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rom 4, 18).
Questa è la speranza che non delude, che è in grado di illuminare, orientare, condurre oltre le fatiche, le angosce, il dubbio, le paure, oltre la stessa morte. La fede dà sostanza alla speranza, perché non è soltanto apertura della vita all’Onnipotente, è protendersi verso un futuro che cambia il presente, imprime coraggio e rafforza la pazienza.
6. Permettete che io ponga ancora una domanda: questa speranza riguarda solo l’individuo? No; essa ha a che fare con la costruzione del mondo, secondo i vari contesti storici, le diverse culture, le attese dei popoli. Gli uomini speranzosi percepiscono di avere un compito per il mondo. Nel medioevo Bernardo di Chiaravalle, parlando della vita nei monasteri, affermava che ai monaci si può applicare la parola dello Pseudo-Rufino: “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe…” (Sententiae III,118). La responsabilità per il mondo deve dunque tradursi in servizio al bene comune, non solo con l’apporto della scienza, ma soprattutto con l’orientamento di forze che sono motivate dalla speranza. Il Papa Benedetto XVI ha scritto nell’Enc. Spe salvi, 26: “Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore” (Spe salvi, 26).
In un tempo in cui la “globalizzazione dell’indifferenza” porta ad un immiserimento delle coscienze e ad un’incapacità di mettersi nei panni degli altri, siamo chiamati ad impegnarci, ciascuno nella propria comunità religiosa, a che la globalizzazione diventi un’opportunità per avvicinare i popoli, integrare le diversità verso un mondo più giusto e più unito.
Le parole che Papa Francesco ha rivolto ai rappresentanti delle Chiese e di altre religioni all’inizio del pontificato, il 20 marzo scorso, costituiscono un riferimento prezioso per i lavori di questi giorni: “La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose …. Essa è ugualmente consapevole della responsabilità che tutti portiamo verso questo nostro mondo, verso l’intero creato, che dobbiamo amare e custodire. Noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace. Ma, soprattutto, dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana ad una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo”.
Proviamo dunque ad indagare le coordinate di una “rivolta spirituale”, con la quale affrontare la crisi e superarla,
con il coraggio della speranza. Saranno i temi della crisi ambientale, che tanto alimenta i nuovi movimenti di protesta in tutto il mondo, o la sfida della fame, oppure i disagi delle periferie “esistenziali” in società sempre più urbanizzate, ad interrogarci sulla sofferenza umana, e sarà il coraggio della speranza la chiave interpretativa unificante a dare ad essi un’impronta nuova, radicata sul valore della gratuità come antidoto al rinserramento nell’io. Il nostro tempo ha nuovamente bisogno di messaggi positivi che contrastino con il pessimismo e la sfiducia assai diffusi in mezzo alla gente e dentro le istituzioni. L’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, come i segni di risveglio religioso indicano con chiarezza.
7. Cari Amici, nel mondo di oggi è ancora tanto presente la cultura dello scontro e della guerra. E’ necessaria una grande alleanza per la pace. Cooperiamo con questo incontro ad allargare lo spirito di Assisi a ogni popolo e a farlo penetrare nel cuore di tante situazioni di sofferenza e di sospetto, perché fiorisca la pace.
*
NOTE
[1] Già della prima esperienza di Assisi del 1986, il beato Giovanni Paolo II affermava che “l’unità dell’origine divina di tutta la famiglia umana, di ogni uomo e donna, che si riflette nell’unità dell’immagine divina che ciascuno porta in sé (cf. Gen 1, 26), orienta di per se stessa a un fine comune” e a trarne le conseguenze sul piano di una approfondita concezione della pace e di un nuovo modo di impegnarsi per essa.
Per ulteriori informazioni sull’Incontro, materiali, testi, foto, video: www.santegidio.org