La mia vita è piena di… Letizia (Prima parte)

La testimonianza di Ester di Paolo, madre di una ragazza down di 22 anni

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Ester, ci parla del suo rapporto con Letizia?

Ester di Paolo: La cosa più bella che mi è capitata nella vita è la nascita di mia figlia Letizia che è una ragazza Down. Più di tanti altri fatti indiscutibilmente bellissimi accaduti in questi anni, dall’incontro con mio marito, alla nascita delle altre due figlie, della nipote, alle amicizie, al lavoro, capisco che più di tutto ciò, il rapporto che mi lega a lei è, in maniera più evidente, vero, profondo, invincibile, un rapporto pieno di gratitudine per il fatto che lei c’è, che esiste.

È un vero privilegio.

Questo amore profondo non posso spiegarlo più di tanto.

È amore vero perché è un rapporto che non è fine a se stesso: cioè che si comprime tra me e lei, o tra lei e la famiglia, o ancora tra lei e gli amici.

Un rapporto fine a se stesso si ridurrebbe al calcolo dei passi fatti, al raggiungimento determinato di alcuni traguardi: vi si introdurrebbe una misura su ogni prestazione.

È un rapporto, invece, in cui c’è come un pertugio da cui entra ed esce aria e che non lo fa scoppiare, inaridire, bloccare. C’è qualcosa che viene prima di me e di lei, c’è qualcosa di più grande di me e di lei che ci rende perfino liberi di sbagliare, di raggiungere o meno i traguardi prefissati così da amarci profondamente e liberamente e quindi di goderci la vita.

Quando e come ha saputo che sua figlia  Letizia era down?

Ester di Paolo:Dopo il parto, in ospedale, quando mi  portavano Letizia in camera, lei dormiva quasi sempre, e si sa, tutti i neonati si somigliano quando hanno gli occhi chiusi. Quando li apriva pensavo: “Non è molto bella.” Ma non ho mai sospettato che fosse Down. Non me ne sono proprio accorta.

Passati i primi 5 giorni di rito, previsti dall’ospedale come naturale degenza delle puerpere, non mi mandarono a casa. Intanto le visite di mio marito, di mia sorella, di persone inaspettate si facevano più frequenti. All’inizio del settimo giorno, dopo aver passato il sesto con un certo disagio, cominciai a chiedere come mai mi trattenessero ancora. Lo chiesi a tutti i dottori che passavano in reparto. Nessuno mi disse la verità: tutti cercarono di tenersi sul vago dicendomi di aspettare con pazienza. Evidentemente non volevano scavalcare il primario, al quale spettava la decisione di dirmelo. In realtà, il giorno successivo, quando passò la visita del mattino di tutti i medici, ostetriche, infermiere e primario ormai esasperata dall’attesa, sapendo che a casa mi aspettavano  altre due figlie di 6 e 3 anni, trovai il coraggio di richiedere, per l’ennesima volta, il motivo per il quale neanche quella mattina pensavano di mandarmi a casa. “Allora dottore,” dissi “quando potrò uscire?”. Il primario subito rispose fra il seccato e il distratto: “Ma… dobbiamo aspettare il risultato della mappa!” Il resto dell’equipe presente attorno al letto, si trovò in evidente imbarazzo, l’ostetrica farfugliò qualcosa, il dottore capì che non sapevo, borbottò fra sè e sé qualche parola e se ne andò, seguito dagli altri medici, lasciandomi lì.

La parola “mappa” non mi aveva particolarmente colpito, ma era l’unica che stonava. Frugai nella mente per capire dove l’avevo già sentita… Non  so quanto tempo passò tra quel momento e l’arrivo di mio marito con gli occhi  arrossati di pianto (minuti, ore o giorni davvero non lo so). Proprio in quel momento si svelò con chiarezza l’enigma. Fu davvero l’ attimo rivelatore. Non seppi come, non seppi perché ma davanti a quegli occhi di pianto, tutti gli indizi andarono in giusta successione, e prima che lui potesse parlare dissi: “E’ down?” Fece “sì” con il capo, mentre piangeva. Ovviamente, siccome lui piangeva, io dovevo fare la “forte”, se avesse fatto lui il “forte” io avrei pianto. Aggiunsi con voce strozzata: ” E’ nostra figlia e ce la teniamo così com’è”. Naturalmente fece di nuovo “sì” col capo.

Rimprovero all’ospedale solo l’atteggiamento del primario che evidentemente non aveva seguito di persona il “caso” e nonostante ciò si è permesso di pronunciare le parole più gravi che potesse dire, senza confrontarsi con chi ci aveva seguito più da vicino, come la mia ginecologa, o un altro medico amico di famiglia, primario in un altro reparto dello stesso ospedale. Mi è sembrato un atteggiamento estremamente superficiale e dannoso, per non dire peggio.

Invece, a parte questo increscioso episodio, l’aver scoperto tutto gradualmente, l’esserci arrivata piano, piano, l’averlo saputo dalla persona a me più cara è stato il sistema, almeno nel mio caso, più naturale.

All’uscita dall’ospedale c’erano ad attenderci mia sorella ed una carissima amica molto più grande di me che era venuta quasi tutti i giorni a trovarmi all’ospedale, inaspettatamente, visto che era rettrice di una grossa scuola di Pesaro ed era sempre molto occupata. A lei, appena l’ho vista, ho chiesto a bruciapelo: “Ma quando Letizia sarà grande, come farà?”

Dentro questa semplice e giustificata domanda c’è tutto lo sgomento di una mamma che innanzitutto ha già due figlie, una mamma addosso a cui piomba un fulmine improvviso, un peso che sembra più grande di qualsiasi altro peso al mondo. Perciò la risposta che mi ha dato mi ha illuminato: “Butta via questi pensieri (che sono proiettati verso un futuro che non c’è, che non si può conoscere adesso, che sono come un salto nel buio di un’assenza) e “vivi l’attimo” che significa “vivi adesso!”. Cioè: apri la portiera della macchina, carica la carrozzina, arriva a casa, infila la chiave, entra, posa la carrozzina, sorridi alla nonna, vai all’asilo a prendere le sorelline, guardale e chiedi loro come è andata, ascolta la risposta e domanda ancora, ecc.”

Ogni gesto ha il suo peso, il suo significato.

Era un significato così intenso e vero, mai provato prima.

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Fonte: http://vitanascente.blogspot.it/

La seconda parte sarà pubblicata domani, domenica 22 settembre

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Anna Fusina

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