Perdonando i fratelli, restituiamo il nostro debito con il Padre

Commento al Vangelo della XXV domenica del Tempo Ordinario

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«Che cos’è questo che sento dire di te?». Le voci dei fratelli ci «accusano» di aver «sperperato» e sottratto loro gli «averi» del Signore. Ad essi, infatti, spettava l’amore che Dio ci ha dato in «amministrazione». L’egoismo ci ha chiusi a nostra moglie, e niente, non riusciamo più a percepire i suoi bisogni. Come il figlio prodigo abbiamo “sperperato” l’eredità e ora siamo così aridi da non accorgerci di quello che accade intorno a noi.

Il lavoro ci assorbe ed è diventato così importante che gli sguardi impauriti e affamati dei figli sono solo un’immagine sfocata. Abbiamo dimenticato che il nostro tempo libero dal lavoro è loro ed è per loro. Gli appartiene e invece ce ne siamo appropriati, e non possiamo “restituirglielo”.

E così ci comportiamo con chiunque, egoisti e illusi. Stolti nella presunzione di sapere che cosa sia importante e cosa no, avvelenati dall’inganno di essere diventati come Dio e di conoscere e stabilire cosa sia bene e male, abbiamo tralasciato un milione di “piccole cose” che, invece, erano decisive; e siamo così diventati insensibili e ciechi da essere incapaci di “essere fedeli” in quelle grandi, quelle che chiunque saprebbe riconoscere come importanti.

Non abbiamo ascoltato le “piccole cose” che avevano da dirci marito, moglie, figli e colleghi? Siamo stati “disonesti” rubando l’amore a chi lo chiedeva con piccoli gesti di attenzione e premura? Stiamone certi, quando lanceranno l’SOS perché in pericolo di vita, non ce ne accorgeremo e non potremo far nulla. Saremo “disonesti” chiudendoci egoisticamente nelle questioni decisive: non sapremo aiutare a discernere un figlio nella scelta dell’università o se sposarsi o no; non potremo dare una parola di fede e speranza alla moglie depressa; impauriti, scapperemo dalla nave che affonda della malattia del fratello.

Questo ci accade perché, invece di gestire con generosità i frutti del «giardino» del Padre, abbiamo allungato la mano avidamente cercando di diventare ricchi come il padrone. Così «non possiamo più essere amministratori», «allontanati» da Lui e dai suoi averi come Adamo ed Eva dal Paradiso. Ma imprevedibilmente, proprio quando dovremmo «rendere conto», si schiude per noi la porta della conversione.

È quando ci accorgiamo che senza le «sostanze» di Dio da amministrare siamo nulla, incapaci di qualsiasi cosa. «Non abbiamo forze» per «zappare» un terreno che non darà mai il raccolto d’amore che solo Dio può concedere. Spogliati della nostra identità, ci «vergogniamo di mendicare» la dignità che solo Dio può donarci. Non abbiamo che una possibilità, ripartire da dove abbiamo fallito, dagli «averi» del Signore.

Perché non cadano di nuovo nelle nostre avide tasche ma siano fecondi per tutti, occorre fare come i “figli di questo mondo”, molto più pragmatici dei “figli della luce”, spesso perduti tra sogni e presunte visioni. Usi ai favori illegali e interessati perché «i loro pari» contraccambino nel bisogno, i primi sanno essere generosi con i denari altrui…

Questa è proprio la “politica economica” alla quale Dio chiama le nostre famiglie e le nostre comunità. Sì, il Signore ci chiama a fare dei nostri figli, dei parenti, dei colleghi, anche di chi ci odia, delle lobby che facciano pressione per la nostra salvezza. Li dobbiamo “comprare” con ogni “disonesta ricchezza”, quella di proprietà “altrui” che abbiamo rubato.

Era, infatti, di Dio quel denaro che non abbiamo dato a nostra moglie per lasciarlo marcire nell’avarizia. Era di Dio e quindi anche di mia moglie…  Era di Dio il tempo che abbiamo tenuto per noi, e quindi era anche di mio figlio. E così di ogni aspetto della nostra vita macchiato dalla concupiscenza. Prendere la ricevuta e cambiare la cifra del debito significa allora soltanto ristabilire la verità e la giustizia. Questa è la “scaltrezza” che piace a Dio, perché è quella che sa sintonizzarsi sulla sua misericordia.

L’“amministratore disonesto” secondo l’onestà del mondo era stato invece molto onesto secondo il cuore di Dio: Lui, infatti, dà la stessa paga agli operai della prima come dell’ultima ora, che fa scendere la pioggia su buoni e cattivi, che fa primi gli ultimi e ultimi i primi. Il Signore ci chiama ad amministrare secondo il suo cuore, perdonando e restituendo a chi ci è accanto quello che gli spetta e che noi, avendolo sottratto a Dio, abbiamo rubato anche a loro.  

Certo, per il mondo giustiziere e perennemente indignato, si tratta di una condotta scandalosa. Sembra mafia, sembra quel lobbysmo clientelare lapidato ogni giorno sui media. Sembra… ma è puro amore, quello rivelato in Cristo Gesù, che “ha dato se stesso in riscatto per tutti”. Secondo la logica mondana potremmo dire che Gesù è un corrotto, venduto alle lobby di assassini, ladri, ingannatori e schiavi di sesso, potere e denaro. Possiamo dirglielo, perché è la pura verità. Sulla Croce Gesù ha pagato ogni spicciolo che abbiamo sottratto; e ci ha “comprato”, cancellando senza condizioni il nostro debito – tutto e non solo una parte – stornandolo dai conti del Padre.

Mentre abbandonavamo la famiglia per servire il lavoro e “mammona” ; mentre ci “affezionavamo” al prestigio e ai denari “disprezzando” Dio e la sua immagine riflessa nella moglie; mentre “amavamo” passionalmente idoli corrotti e “odiavamo” l’unico e vero Dio della Vita, Cristo pagava per noi il debito che si andava accumulando. Guardava il Padre e diceva: “Perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Sì, Gesù ha fatto la cresta sugli “averi” del Padre per darci la “ricchezza vera”, quella “nostra”,  ovvero l’amore che ci appartiene e che, per l’inganno del demonio, avevamo dimenticato.

Con esso potremo restituire il debito contratto con il Padre; come? amando i fratelli e perdonando i loro debiti come  Dio li ha perdonati a ciascuno di noi… Per questo, quando per il mondo “verrà a mancare” la “ricchezza disonesta”, ci “accoglieranno nelle dimore eterne” proprio le persone per le quali avremo perduto tutto, anche le “cose più piccole” – un programma televisivo, la meta di una vacanza o, ancor più insignificante, quel pezzo di dolce rimasto e che avremmo proprio voluto…

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Antonello Iapicca

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