Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXIV.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Tre aggettivi per un solo Amore: insensato umanamente, sollecito maternamente, paterno divinamente.
Rito romano
XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 15 settembre 2013.
Es. 32, 7-11, 13-14; 1Tim 12-17; Lc. 15, 1-32
Trovati da Dio
Rito ambrosiano
III Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 43,24c-44,3; Sal 32; Eb 11,39-12,4; Gv 5,25-36
Le opere di Cristo testimoniano che il Padre lo ha mandato
1) La misericordia pastorale.
Le parabole di Gesù oltre a darci il suo insegnamento profondo e bello ci mostrano il punto di vista di Dio. E così succede nelle tre parabole di oggi, in cui Cristo parla della pecorella smarrita, della moneta perduta e del figlio prodigo, mettendo in evidenza il “cuore del Vangelo” cioè l’amore misericordioso.
Già nella prima parabola si vede un modo di agire non umano o, per lo meno, insensato dal punto di vista umano. In effetti, alla domanda del “Quale uomo tra voi, avendo cento pecore e perduta una di esse, non abbandona le novantanove nel deserto e (non) va verso quella perduta, finché non l’abbia trovata?” (Lc 15,4), verrebbe da rispondere: “Nessuno”, perché chi è l’uomo di buon senso che lascia le 99 pecore nel deserto e non nell’ovile, e che di notte va alla ricerca della smarrita, sfidando i pericoli del deserto?
I pericoli del deserto sono fame, sete, caldo, predoni, belve, perdita dell’orientamento soprattutto con il buio, che rende pressoché impossibile continuare la ricerca nell’oscurità della notte. Ma Cristo, buon Pastore divino è mosso da un amore umanamente insensato, ma divinamente logico e va alla ricerca.
Si può dire che continua la ricerca che Lui fa dell’uomo da quando questo si era nascosto nel paradiso terrestre fino agli inferi, ci rivela che per lui noi valiamo più di Lui, tant’è vero che poi è morto al nostro posto dando la vita per noi.
Si può dire che la nostra ricerca di Dio inizia quando Dio ha terminato la sua, trovandoci e perdonandoci e facendo festa con noi.
Nella parabola della pecora perduta e ritrovata, si annota che il pastore non interrompe la sua ricerca finché non la trova: dunque una ricerca ostinata, perseverante, per nessun motivo disposto ad abbandonare la pecora al suo destino. Allora comprendiamo che la decisione del Pastore non fu poi così insensata, fu coraggiosa e frutto di intelligenza ardita e di un cuore che ama perdutamente.
Questo mi permette di fare notare che questa parabola, come pure le due che seguono, termina parlando della gioia di Dio per il ritrovamento qui della pecora, poi della moneta e del figlio: «Così, vi dico, c’è gioia davanti agli occhi di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,10).
Si possono ricavare due insegnamenti. Uno esplicito: agli occhi di Dio l’uomo anche e, forse, proprio perché peccatore ha un valore immenso. L’altro implicito: con la gloria recuperata di un unico peccatore “aumenta” la Gioia divina.
2) La misericordia materna
Analoga nella sostanza è la seconda parabola: quella della dracma[1] perduta.
Anche qui la ricerca per trovare ciò che si è smarrito è fatta in modo accurato, oggi diremmo scientifico. La padrona di casa accenda la lampada, che mette in un punto strategico, poi scopa lentamente, attentamente l’intera casa, cerca con cura[2], finché trova la moneta perduta. Trovatala, chiama le amiche e le vicine e le interpella per gioire insieme sulla “dracma perduta e ritrovata” (v.9). Se la prima parabola parla del Pastore, che nel mondo ebraico di allora indicava pure il Re, vediamo l’amore “pastorale” di chi guida, nella seconda vediamo l’amore “sollecito” della madre di famiglia che mette a soqquadro il “mondo”[3] per cercare il “tesoro” che è la ragione della sua vita: il figlio.
Una donna, una madre sa molto bene il valore di un figlio e in questa parabola vediamo che essa rappresenta Dio che, con amore infinito di padre e di madre, “si affanna” nel ricercare la preziosa moneta smarrita.
In ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate che sono chiamate ad “affannarsi” maternamente mendicando nella preghiera il perdono per i peccatori, offrendo la loro preghiera di intercessione (RCV 28) per gli smarriti soprattutto per coloro che hanno perso la fiducia nella misericordia divina, e trasferendo nei luoghi dove vivono e lavorano l’amore di Dio che sempre perdona.
3) La misericordia paterna.
E qui subentra la terza parabola. Se per una moneta e per una pecora prima si fa festa in cielo, immagiate che festa fa Dio quando “realtà ritrovata” è un uomo: un figlio perdutosi e ritrovato.
Questo figlio, che è chiamato prodigo perché ha sperperato l’eredità paterna nei vizi, e si è ridotto all’estrema miseria e alla fame, si è “perduto”: ha smarrito la consapevolezza della bellezza della propria identità. Ha smarrito la gioiosa memoria del volto del Padre e della sua misericordia. Questa pagina del Vangelo quindi è un annuncio apportatore di gioia per noi: quando sperimentiamo di esserci “persi”, affidiamoci a colui che è venuto a cercarci e confidiamo nel suo grande amore. E’ questa la volontà del Padre. Noi siamo preziosi ai suoi occhi.
In questo contesto comprendiamo il senso del testo dell’Esodo (prima lettura “romana”), dove il popolo d’Israele, liberato dalla schiavitù, si dimentica spesso di Dio, tanto che costruisce l’idolo del vitello d’oro. Meriterebbe per questo il castigo, ma il Signore lo perdona per la commossa e profonda preghiera di intercessione di Mosè. Così pure l’apostolo Paolo (seconda lettura) afferma che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, e lui si sente tanto peccatore… ma ha ottenuto misericordia.
La misericordia esprime l’onnipotenza di Dio, l’amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente: è il volto di Dio.
Accostiamoci spesso al Sacramento della Riconciliazione o Penitenza, che altro non è che attuare in noi il ritorno a casa del figlio prodigo.
L’esperienza del peccato, che è questo “perdersi”, diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci “perseguita”[4] con il suo amore misericordioso e fa festa perché ci ha ritrovati.
PS: Si veda anche il commento fatto allo stesso vangelo in occasione della IV domenica di Quaresima 10 marzo 2013.
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LETTURA PATRISTICA
San Leone Magno[5], (ca 390 -461)
Papa e Dottore della Chiesa
Sulla misericordia e la verità.
Sermo 45,2, PL 54,289‑290.
“La regola di vita dei credenti scaturisce dallo stile stesso con cui Dio opera. L’Altissimo, infatti, esige che quelli ch’egli ha creato a sua immagine e somiglianza si sforzino di imitarlo.
Non potremo ottenere le ricchezze della gloria divina se la misericordia e la verità non avranno in noi dimora. Mediante queste vie, infatti, il Signore e venuto verso quelli che avrebbe salvato; e per tali sentieri i salvati devono affrettarsi a incontrare colui che li ha redenti. Così la misericordia di Dio ci rende misericordiosi e la verità ci fa essere veritieri.
L’anima retta cammina per la via della verità come l’anima intrisa di bontà avanza per la via della misericordia.
Epp
ure questi due sentieri non si separano mai; non si tratta infatti di tendere verso scopi diversi per vie differenti; e crescere nella misericordia non è diverso dal progredire nella verità. Difatti, chi manca di verità non e misericordioso, e chi e privo di bontà non e capace di rettitudine. Non essere ricchi di entrambe queste due virtù, significa l’impossibilita di praticare sia l’una che l’altra.
La carità è la forza della fede e la fede e la fortezza della carità. Ognuna di esse merita il suo nome e porta frutto soltanto se un legame inscindibile le unisce.
Dove non sono presenti insieme, lì anche mancano entrambe, giacché si Offrono aiuto e luce a vicenda fin quando la ricompensa della visione colmerà la brama della fede e senza mutazioni vedremo e ameremo quello che ora non possiamo amare senza la fede né credere senza l’amore.
Fede e carità non permettono di soccombere sotto il peso di basse sollecitazioni, perché come ali possenti sollevano a volo il cuore puro fino all’amicizia e alla visione di Dio.”
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NOTE
[1] Una dramma era il salario giornaliero di un contadino od operaio al tempo di Gesù Cristo.
[2] In greco ἐπιμελῶς che si legge epimelòs e che significa “diligentemente, attentamente, accuratamente”.
[3] Guardata con gli occhi di Dio la Terra è una casa neppure tanto grande in rapporto all’Universo intero.
[4] Dal verbo “perseguire” dal latino PERSEQUI composto dalla particella intensiva “PER” e “SEQUI” = seguire, dunque tener dietro con costanza e ardore. Significato derivato “perseguitare”, “persecuzione”.
[5] Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni.
Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di San Leone Magno. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia (451).