E' la fede in Cristo che cambia la vita, sconfigge la violenza e promuove la pace!

Meditazione di monsignor Ernesto Vecchi in occasione della Giornata di preghiera e digiuno per la pace

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Sabato 7 settembre, presso la Chiesa di S. Antonio – Santuario antoniano dei Protomartiri francescani – monsignor Ernesto Vecchi, amministratore apostolico della Diocesi di Terni – e non semplicemente amministratore diocesano, come recentemente ha tenuto a chiarire – ha presieduto la veglia di digiuno e preghiera per la pace, proponendo ai presenti la seguente meditazione. 

***

Anche noi, stasera, ci sentiamo partecipi di quella catena di impegno per la pace che unisce tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Ma il nostro essere qui – convocati dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo – comporta una scelta di fondo, tra la «cultura del conflitto» e la «cultura dell’incontro e del dialogo» (Cf.Angelus del 1-9-2013).

Per compiere questo discernimento, che è strutturale nella vita di ogni persona, è necessario riscoprire la fede biblica come radice della fraternità universale, perché pone al centro l’amore di Dio che si riverbera tra gli uomini mediante l’Incarnazione, la Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Solo la fede ci insegna a vedere la benedizione – per me – presente in ogni uomo. Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno (T.S. Eliot). La fede, invece, illumina il vivere sociale; essa possiede una luce creativa per ogni momento nuovo della storia (Cf.Lumen fidei, nn. 54-55).

Ce lo ricorda la liturgia eucaristica, prima dello scambio del segno di pace: “Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: «Vi lascio la pace, vi dò la mia pace», non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa“. Ecco perché Benedetto XVI ha indetto l’anno della fede: senza la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo (Cf. Gv 14, 6), l’uomo non va da nessuna parte e rimane prigioniero nel sempre più enigmatico labirinto dei percorsi mondani.

Il mondo, che si autodefinisce «laico» e che ha fissato i suoi traguardi nella “modernità”, “ha cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo capito che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere” (Lumen fidei, n. 54).

Pertanto, la fede cristiana, oggi, è più che mai necessaria, come sono necessari cattolici coerenti e preparati, in grado di riabilitare la «democrazia argomentativa», capace di mettere in campo la Dottrina sociale della Chiesa, attraverso la dimensione della ragionevolezza della fede.

Una società “laica” non è necessariamente “relativistica“, cioè senza riferimenti valoriali certi: lo è se prevale il “laicismo“, che non offre molti sbocchi alla maturazione di una democrazia compiuta. La nostra democrazia, oggi soffre di una crescente “complessità” e si trova in affanno, per il prevalere degli interessi di parte, portati all’esasperazione dalle crescenti pressioni lobbystiche. “Una democrazia – lo ha detto Papa Francesco – è senza futuro se rimane chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti” (Cf. Discorso alla classe dirigente del Brasile, 27-7-2013).

Pertanto, i laici, credenti e non credenti, sono chiamati a riscoprire i “valori universali“, capaci di aggregare persone di diversa appartenenza culturale e religiosa. Occorrono uomini e donne di buona volontà disposti a riflettere e a identificare tali valori nell’area del «diritto naturale», che non può essere soffocato dalla cultura libertaria e autoreferenziale. “Chi agisce responsabilmente – è sempre Papa Francesco che parla – colloca la propria azione davanti ai diritti degli altri e davanti al giudizio di Dio. Questo senso etico appare oggi come una sfida storica senza precedenti, dobbiamo cercarlo, questo senso etico, dobbiamo inserirlo nella stessa società. Oltre la razionalità scientifica e tecnica, nella situazione attuale si impone il vincolo morale con una responsabilità sociale e profondamente solidale” (Cf. Discorso alla classe dirigente del Brasile, 27-7-2013).

Chi non ha perso dimestichezza con l’uso della ragione sa anche che il supporto di ogni traguardo davvero promozionale è la coltivazione integrale delle risorse umane, che hanno il loro vertice nelle componenti spirituali, le sole in grado di introdurre nell’orizzonte umano la qualità totale. Il fenomeno della globalizzazione impone ogni sforzo per far convergere le forze verso un autentico spirito di fraternità. Per noi cristiani dire oggi «fraternità» significa un riferimento esplicito alla «civiltà dell’amore», la cifra che ci consente di dire che tutti i popoli appartengono all’unità della famiglia umana (Cf. Giovanni Paolo II, L’Osservatore Romano, 2-3 maggio 2000).

Ma il cristiano non deve cadere nell’equivoco di una rifondazione puramente immanente (cioè laicista) di valori cristiani, come è accaduto con la famosa trilogia rivoluzionaria «libertà, uguaglianza, fraternità», concetti tipicamente cristiani, ma scippati e “secolarizzati” dalla Rivoluzione francese e dalla filosofia dei lumi.

Di conseguenza questi traguardi sono stati “bloccati”: prima, dal terrore rivoluzionario del 1793, prodotto tipico del “progetto illuministico”, che assegnando alla sola ragione l’unica luce di salvezza per l’uomo, ne ha in realtà causato l’eclissi, trasformando la rivoluzione in forza promotrice della ghigliottina e delle stragi di Stato. Ne esce così confermata la falsità della persuasione che il cambiamento per essere autentico debba risultare rivoluzionario e che sia rivoluzionario nella misura in cui si manifesta violento. In realtà nessuna rivoluzione è stata creativa in virtù del sangue versato e dei soprusi commessi.

Papa Francesco, durante la GMG, ha fatto sue le parole del pensatore brasiliano Alceu Amoroso Lima: «Quanti, in una Nazione, hanno un ruolo di responsabilità, sono chiamati ad affrontare il futuro con lo sguardo calmo di chi sa vedere la verità». In tale prospettiva, la «calma» porta a scoprire la «cultura dell’incontro», nella quale tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. Questo atteggiamento aperto, disponibile e senza pregiudizi, Papa Francesco lo definisce “umiltà sociale” (Cf. Discorso alla classe dirigente del Brasile, 27-7-2013).

E’ l'”umiltà sociale” il catalizzatore della pace, ma è un traguardo esigente, frutto della riconciliazione con Dio e con il prossimo. Pertanto, se vogliamo essere davvero operatori di pace, dobbiamo accogliere l’insegnamento di San Giovanni Crisostomo, che ci chiede di sintonizzare la nostra vita su cinque frequenze: riconoscere i propri limiti e le colpe commesse; perdonare le offese ricevute; respirare la grazia di Dio nella preghiera; soccorrere i bisognosi e condividere le risorse; avere una giusta considerazione di sé, che si impara alla scuola di Gesù, che è «mite e umile di cuore (Cf. Mt 11,29). D’altra parte, l’umiltà affonda le sue radici in una  consapevolezza che nessun traguardo scientifico può cancellare dalla coscienza dell’uomo: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!» (Cf. Gv 3,19).

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E’ la fede in Cristo – vissuta con coerenza – che cambia la vita, sconfigge la violenza e promuove la pace!

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ZENIT Staff

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