La sua mentalità organizzativa gli fu utile anche in missione. Praticamente continuò a fare il manager, professione che conosceva bene e nella quale aveva ormai acquistato grande esperienza. Mise tutto il suo talento e tutto il suo denaro a disposizione delle missioni, dei poveri, dei lebbrosi che intendeva servire.
Per prima cosa, si dedicò alla costruzione di un grande ospedale, al cui progetto aveva cominciato a lavorare mentre era ancora in Italia. Quell’opera resta ancora oggi il massimo complesso ospedaliero dell’Amazzonia brasiliana. Lungo 160 metri, su due piani, l’ospedale ha una capacità di 160 posti. E’ dotato di clinica medica, ostetrica, pediatrica, chirurgica, di un gabinetto dentistico, una farmacia e di cinque ambulatori con un reparto d’analisi, un laboratorio dermatologico, una biblioteca medica e una scuola per infermieri.
All’interno si trova anche un centro di ricerca per malattie tropicali e infettive, collegato con la Facoltà di Medicina di Belo Horizonte. Quindi, un centro universitario.
In quell’ospedale, che lavora a pieno ritmo fin dall’inizio degli anni Settanta, vengono eseguite ogni anno migliaia e migliaia di visite mediche, di esami di laboratorio. Le infermiere e gli infermieri usciti dalla scuola di quell’ospedale, sono ormai diffusi su tutto il territorio della regione. Essi lavorano restando in stretto collegamento con l’ospedale, che li assiste ed è pronto a intervenire nei casi di emergenza.
Oltre all’Ospedale, ci sono in Brasile altre opere realizzate direttamente da Candia e altre ancora sono sorte dopo la sua morte, volute e gestite dalla Fondazione Marcello Candia che egli stesso costituì prima di morire proprio con lo scopo che si occupasse delle opere che aveva dato vita e di altre che risutlassero utili e necessarie per i suoi poveri.
Mentre organizzava, progettava e seguiva i lavori, Candia doveva anche preoccuparsi di trovare i soldi, non solo per la costruzione, ma anche per il funzionamento di quei centri. Marcello lavorava diciotto, venti ore al giorno. Ogni anno tornava, per alcuni mesi in Italia, per raccogliere fondi, per tenere conferenze. Si sottoponeva a sfibranti maratone alla ricerca di aiuti. E così i viaggi, i continui cambiamenti di clima, i disagi, le fatiche si fecero sentire. Marcello cominciò ad accusare disturbi al cuore. I medici gli dicevano che doveva riposarsi e lui rispondeva che i suoi poveri avevano bisogno di lui. Continuò perciò la sua attività, senza mai diminuire il ritmo frenetico. Ebbe cinque infarti. Nel 1977, fu sottoposto ad una delicatissima operazione chirurgica nel corso della quale gli vennero applicati tre by-pass. Ma neanche quell’intervento lo fermò.
Lavorava per amore di Dio e non voleva ricompense su questa terra. Nelle sedi missionarie, non voleva essere trattato con nessuna distinzione. Anche quando era molto ammalato, mangiava quello che mangiavano i suoi assistiti e non si lamentava mai. Terminata un’opera, la regalava a un istituto religioso. Non voleva avere legami con essa. Non voleva cioè esserne il “proprietario”, il “direttore”, il “responsabile”. Regalò il grande ospedale di Macapà, ai padre Camilliani, che lo nominarono, contro la sua volontà, “presidente onorario”. “E’ un titolo che non mi piace”, diceva, “ma poiché il cinquanta per cento degli ammalati che vengono curati ogni anno non ha soldi per pagare e non ha assistenza sociale, io, come presidente onorario, mi impegno a coprire i loro debiti”.
Quando Giovanni Paolo II, nel 1980, andò in Brasile, volle visitare il lebbrosario di Mariturba, che è una delle grandi opere realizzate da Marcello Candia. Il lebbrosario era diretto da monsignor Pirovano che, durante la visita, illustrava l’opera al Papa e gli presentava i missionari e le varie autorità. Il Pontefice continuava a guardare in giro e, ad un certo momento, disse a monsignor Pirovano: “Ma, insomma, dov’è il dottor Candia di cui ho tanto sentito parlare?”. E allora tutti si guardarono intorno e si accorsero che Marcello Candia, l’autore di quelle belle opere a favore dei lebbrosi, non era nel gruppetto delle personalità che erano state presentate al Papa. Lo cercarono. Marcello era dietro a tutti, che conduceva la carrozzella di un lebbroso, un uomo senza mani e senza piedi, orribilmente mutilato anche nel viso. Candia aveva un ventaglio in mano e lo agitava intorno a quel povero troncone umano, per alleviare il fastidio del caldo che in quel momento raggiungeva i 45 gradi all’ombra. Il lebbroso, dato che era senza mani, non poteva usare il ventaglio. Quando il Papa li vide, capì quanto fosse grande la bontà e la delicatezza d’animo di Marcello. Gli andò incontro senza dire una parola per la commozione. Lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.
“Il povero più povero è colui che non riesce a farsi ascoltare da nessuno”, mi disse un giorno Marcello Candia. “Quando sono andato in Amazzonia, con molti soldi e grandi capacità organizzative, pensavo che il più grande regalo che potevo fare ai poveri fosse appunto il denaro e la mia professionalità. Poi mi sono accorto che c’è qualcosa che vale di più: è il dono del tuo tempo, della tua attenzione alle persone, della tua amicizia, perché in questo modo non dai “del tuo”, ma “dai te stesso”. Quello che vogliono i poveri non è solamente cibo, assistenza, aiuti materiali. Desiderano soprattutto comprensione, fraternità, essere ascoltati”.
Marcello dormiva pochissimo: quattro, cinque ore al massimo. Al mattino si alzava alle cinque e trascorreva alcune ore in chiesa, a pregare e a meditare. Benché fosse un laico, dedicava alla preghiera molte ore al giorno.
Una suora, sua collaboratrice, mi disse: “Marcello parlava di Dio come di una persona che conosceva bene e incontrava tutti i giorni”. Nelle difficoltà più gravi, prima di prendere una decisione particolarmente importante, spariva per alcuni minuti. I suoi collaboratori sapevano che si ritirava a pregare. La sua fiducia in Dio era totale. La sua fede era simile a quella che un bambino ripone nel padre.
La sua grandezza spirituale, l’autenticità della sua fede profonda sono balzate in evidenza al momento della prova suprema, quando ha saputo che doveva morire. Marcello seppe di avere un cancro nel 1981, cioè due anni prima di morire. I medici gli dissero la verità, ma egli volle continuare a vivere come sempre, senza parlare con nessuno della sua malattia. Solo nell’agosto del 1982 si confidò con suor Giovanna, una sua collaboratrice, raccomandandole però il segreto più assoluto. “Se il Signore mi vuole prendere”, disse “continuerà lui le mie opere. Io intanto lavorerò come se dovessi vivere per sempre”.
Ha continuato la sua missione, spostandosi da un luogo all’altro, tra sofferenze incredibili fino a venti giorni prima della fine. Da tempo non riusciva a mangiare e a bere. Vomitava tutto. Si reggeva in piedi con la volontà. Quando si rese conto che tutto era finito, prese l’aereo e tornò in Italia. Fece un viaggio allucinante. Giunto a Parigi, dovette essere condotto al pronto soccorso. Volevano trattenerlo, ma ripartì. A Milano venne ricoverato nella clinica Poi X, dove trascorse gli ultimi venti giorni della sua vita.
E’ morto proprio come un santo. Il cancro al fegato provocava dolori tremendi, ma egli sopportava tutto senza mai lamentarsi. Gli infermieri, i medici non riuscivano a rendersi conto come facesse a resistere senza gridare, urlare, disperarsi. Al suo amico, don Peppino Orsini, che era il suo direttore spirituale confidò: “Oggi Gesù mi ha fatto vivere l’esperienza più bella della mia vita e mi ha fatto capire che non è sufficiente pregare il Signore: più importante è accettare con umiltà e disponibilità il dolore, come e quando Dio lo permette. Sapevo che esisteva il dolore, ma nella mia ignoranza e nella mia vanità non l’avevo mai vissuto veramente: accettare la sofferenza come Dio la manda, accettarla con gioia, perchè il Signore la dà soltanto per il nostro bene, è la cosa più bella e più im
portante”.
Sul suo letto di dolore pregava continuamente. Pensava però alle sue opere in Brasile. Pochi giorni prima di andarsene, disse a un amico: “Se il Signore mi chiedesse consiglio, gli direi di lasciarmi qui ancora per un po’. Avrei tante cose da fare. Ma se egli mi chiama, sono pronto a spegnere la luce”. Morì mercoledì 31 agosto 1983, alle 17.30.
Il 12 gennaio 1991, il Cardinale Carlo Maria Martini, arvivescovo di Milano, aprì il processo diocesano per la causa di canonizzazione di Marcello Candia, che si è concluso l’8 febbraio 1994. E’ ancora in corso la seconda fase del processo, quella presso la Congregazione dei Santi in Vaticano.
(La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 26 agosto)