La sua prossima sfida, ad agosto, sarà impegnativa: dovrà difendere, a Budapest, il titolo di campione del mondo di spada. Ma la vittoria più importante, Paolo Pizzo, 29 anni, medaglia d’oro ai mondiali di scherma del 2011, l’ha conquistata più di quindici anni fa: «Avevo 13 anni e tiravo già di scherma quando cominciai ad avere crisi epilettiche, che risultarono dovute a un tumore al cervello» racconta l’atleta. «Fui operato nella mia città, Catania, e dopo l’intervento i medici, per prudenza, mi sconsigliarono di riprendere l’attività agonistica. Ma io non volli sentire ragioni, e dopo pochi mesi ero di nuovo in pedana».
Come l’atleta italiano sono moltissime oggi le persone che possono dire di aver girato pagina e voltato le spalle al cancro. Si calcola che circa un adulto ogni 900, in Europa, abbia avuto la malattia durante l’infanzia o l’adolescenza. Se poi si considerano anche tutti quelli che si sono ammalati da grandi, ma che hanno girato la boa dei cinque anni dal momento della diagnosi, si arriva al 2,2 per cento della popolazione italiana. Di questa quota fanno parte persone che, come Pizzo, possono considerarsi fuori dal tunnel o altri che convivono con una condizione diventata cronica e tenuta sotto controllo, tutti etichettati indistintamente dai medici come «lungo sopravviventi».
Il termine però non piace molto ai pazienti italiani ed europei, così come fa storcere il naso, nel nostro contesto culturale, la definizione di survivors, «sopravvissuti», di cui oltreoceano invece ci si fregia. «Nella mentalità anglosassone questo termine sta a indicare una vittoria di cui andare orgogliosi, perché conseguita contro un temibile avversario» spiega Antonella Surbone, cresciuta e laureata in Italia ma ora docente di Medicina interna e oncologia alla New York University e di Comunicazione all’MD Anderson Cancer Center di Houston, in Texas. «E ci si considera survivors fin dal momento della diagnosi, per sottolineare il valore di ogni giorno di vita che si riesce a strappare alla malattia».
In Europa, invece, si preferisce mettere una pietra sopra l’esperienza passata, e dichiararsi «guariti» una volta che il rischio di ripresa della malattia scende fino a raggiungere quello che chiunque altro ha di avere un cancro.
La verità, però, è che anche gli esperti sanno poco di questa grande massa di persone, di cui non c’è cenno nei libri di medicina. La ragione è semplice: fino a pochi decenni fa erano solo pochi i fortunati che riuscivano a superare quello che, per definizione, era chiamato un «male incurabile». Un grande studio europeo, chiamato PanCareSurfUp, nato dall’iniziativa di alcuni oncologi italiani, sta ora cercando di colmare questa lacuna, raccogliendo i dati di 80 mila persone guarite dal cancro in età infantile.
La gran parte di loro ha ripreso una vita del tutto normale. Lavorano, si sono sposati e hanno avuto dei figli, ma spesso portano su di sé piccoli o grandi conseguenze delle terapie ricevute: oltre al maggior rischio rispetto alla popolazione normale di andare incontro a un nuovo tumore, possono avere vari gradi di mutilazione dovuti agli interventi chirurgici, e subire gli effetti collaterali permanenti della chemio e della radioterapia. Possono avere invalidità di vario tipo, ci può essere una compromissione dello sviluppo cognitivo e del rendimento scolastico, oppure difficoltà ad avere figli.
«Questi effetti sono più evidenti in chi è stato curato molti anni fa, quando ci si preoccupava quasi esclusivamente di salvare la vita del paziente» spiega Franca Fossati Bellani, che per più di quarant’anni è stata oncologa pediatra all’Istituto nazionale dei tumori di Milano. «Oggi, invece, accanto a questo obiettivo che resta prioritario, nella scelta delle cure si tiene sempre conto anche della qualità della vita, non solo della sua quantità. Col tempo si è ridotto al minimo, per esempio, il ricorso alla radioterapia nei bambini e si sono abbassati i dosaggi di farmaci come le antracicline che possono danneggiare il cuore».
Anche così, comunque, si può talvolta andare incontro a malattie cardiache o renali, epatiche o polmonari, anche a distanza di anni dai trattamenti. Il cortisone, poi, può indebolire le ossa. Per questo chi ha avuto un cancro deve stare ancora più attento degli altri a seguire sani stili di vita: attenersi a un’alimentazione adeguata e corretta, svolgere un’attività fisica regolare e costante, evitare di fumare o di assumere troppo alcol. «Occorre che il medico di famiglia sia ben informato, in modo da tenere sott’occhio eventuali conseguenze a lungo termine dei trattamenti» raccomanda Fossati Bellani, che oggi è presidente della sezione milanese della Lilt, la Lega italiana per la lotta ai tumori.
Non esiste tuttavia per ora un calendario di controlli cui sottoporsi che valga per tutti. «Uno degli obiettivi di PanCareSurFup sarà individuare gli esami periodici cui ciascun “guarito” dovrà sottoporsi» dice Momcilo Jankovic, responsabile del Day hospital di oncoematologia pediatrica dell’ospedale San Gerardo di Monza, Fondazione Mbbm, tra i promotori dello studio. «Prima di questo, però, cercheremo di accertare se, dopo venti-venticinque anni dalla guarigione, la percentuale di sopravvivenza di queste persone possa essere paragonabile a quella della popolazione generale e di capire, qualora non lo fosse, quali fattori la condizionano di più». La ricerca tenterà anche di verificare se lo sviluppo di un secondo tumore o di malattie cardiache in età adulta possa essere stato influenzato dalle cure ricevute da bambini.
«I pazienti non sono tutti uguali, così come i trattamenti cui sono stati sottoposti – prosegue Jankovic –. Si sta quindi progettando anche una sorta di “passaporto di guarigione”, chiamato survivorship passport: un documento, su carta e su supporto elettronico, da consegnare al paziente alla fine delle cure, che raccolga in maniera sintetica le informazioni utili sull’andamento della malattia e delle terapie eseguite, con il dosaggio totale di radiazioni e di farmaci ricevuti». Questo permetterà al medico curante di avere a portata di mano i dati necessari per programmare i controlli più opportuni e capire se eventuali disturbi insorti nel tempo possono dipendere dall’esperienza passata. «Si spera così di andare a colmare quel pericoloso vuoto che talvolta si crea quando il paziente dovrebbe passare dall’attenzione degli oncologi pediatri a quella del medico di famiglia – aggiunge Fossati Bellani –, una condizione per cui è stato coniato il termine di “lost in transition”».
La necessità di controlli, che si vanno diradando nel tempo, o la possibilità che la malattia o le cure lascino segni permanenti, non impedisce però di parlare di guarigione. «Lo abbiamo stabilito nel 2006, a Erice, in Sicilia, in un convegno che ha riunito molti oncologi, ma anche psicologi, infermieri, epidemiologici, malati e genitori – prosegue Jankovic –. Una persona si deve considerare guarita quando è stato curato il tumore originario, indipendentemente dal fatto che le rimangano disabilità o effetti collaterali dei trattamenti che ha subito».
Il medico sa bene di che cosa sta parlando. Egli stesso, più di trent’anni fa, ha perso la vista da un occhio a causa di un tumore, ma ciò non gli ha impedito di proseguire la sua vita e la sua attività, né lo fa sentire ancora malato. «Purtroppo talvolta la società ancora stigmatizza chi ha passato questa esperienza» ribadisce l’oncologo. «Sottolineare il concetto di “guarigione” serve a superare gli ostacoli relazionali, professionali, burocratici, assicurativi che ancora oggi si trovano sulla strada di chi vuole andare avanti».
E se è vero che le cicatrici non si formano solo nel corpo ma anche nell’anima, queste non sono sempre negative. «Un’esperienza del genere spesso rende le persone particolarmente forti e coraggiose nei confronti delle d
ifficoltà – aggiunge Jankovic –, sviluppando quella che chiamiamo resilienza». «Si impara a guardare la vita in una prospettiva diversa – interviene Paolo Pizzo –, dando a ogni cosa il giusto valore e scoprendo la centralità dei rapporti familiari e interpersonali».
Non per tutti, però, è così. «Spesso nelle persone con una diagnosi pregressa di cancro possono rimanere incertezza, ansie e paure ed è innegabile che i casi di depressione siano più frequenti tra di loro che nella popolazione generale – precisa Surbone –. Oltre agli aspetti strettamente legati alla salute è necessario imparare a riconoscere questi bisogni psicologici e anche quelli psicosociali, che cambiano in relazione all’età e alle caratteristiche del malato e della malattia: in un bambino, per esempio, è importante il percorso scolastico o il gioco; per una persona giovane possono essere prevalenti le difficoltà relative alla conquista di una propria autonomia dalla famiglia di origine e la possibilità di formarsene una propria; per un adulto l’impatto della malattia sulla possibilità di avere figli o sulla carriera e così via». A tutti si deve garantire una risposta chiara alla richiesta di informazioni. «Senza trascurare gli aspetti spirituali, che sono fondanti in ogni individuo, indipendentemente dal fatto che pratichi una religione oppure no» conclude Surbone. Aspetti che l’incontro con la malattia spesso risveglia, anche in coloro che prima potevano sembrare più superficiali o distratti.
[Fonte: Messaggero di Sant’Antonio]