Il tema della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è uno degli argomenti principali dell’agenda politica, sociale ed economica non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Analizzando i recenti dati del Youth Report della Commissione Europea (2013), le conseguenze della disoccupazione giovanile: feriscono la speranza nel futuro, impediscono l’indipendenza economica e sociale, alimentano la precarietà, peggiorano le condizioni di lavoro, ostacolano l’innovazione dei processi produttivi, accrescono vecchie e nuove forme di povertà, fanno aumentare le diseguaglianze.
Tutto ciò alimenta la crisi della democrazia, fa crescere l’ingiustizia sociale, rende più fragile la coesione e la solidarietà. In sintesi, il Report sancisce lucidamente la crisi del modello sociale europeo. Questo impone tutta una serie di riflessioni: innanzitutto, la capacità della tecno-società di produrre buoni posti di lavoro; poi, nuovi modelli di sviluppo che attivino una prospettiva solidale di progresso economico e sociale e, infine, il ripensamento dell’importanza (soprattutto in paesi come l’Italia) del ruolo della produzione culturale e dell’industria manifatturiera e agroalimentare.
Già negli anni ’90 del secolo passato, il sociologo statunitense Richard Sennett, con il saggio “The corrosion of Character”, cercò di delineare gli effetti del capitalismo tecnologico e globalizzato su milioni di lavoratori ed i risultati che questi producono sulla personalità delle persone. Sennett descrisse con lucidità gli aspetti negativi, come, cioè, la cultura della precarietà e della flessibilità intacchi la psiche del lavoratore, quindi i suoi risvolti sociologici, la relatività del valore del lavoro e via dicendo.
Questa rivoluzione, che segnò il passaggio dalla società industriale a postindustriale, secondo il sociologo erode la personalità degli individui. Non a caso, il titolo originale del libro è “The corrosion of character”, stravolto poi in italiano da Feltrinelli in “L’uomo flessibile”. In sintesi, dal punto di vista di Sennet, per milioni di lavoratori la flessibilità si declina solo in termini di precarietà e incertezza, imponendo estreme difficoltà nel costruire un progetto di vita, disarticola e rende “liquida” la società e le relazioni personali.
Anche il Report della Commissione Europea avvisa che già prima della crisi finanziaria, esistevano seri problemi per l’occupazione giovanile. Lo studio evidenzia che, nel 2008, il tasso di disoccupazione degli under 24 in Europa era più del doppio rispetto agli altri (17% contro 7%). In questi anni di crisi, le prospettive occupazionali dei lavoratori europei tra i 15 e i 24 anni sono peggiorate più di quelle di qualsiasi altra classe di età.
Tra il 2008 e il 2012, i dati sull’occupazione sono positivi solo per gli over 50, mentre si riscontra un aumento della disoccupazione con l’abbassarsi dell’età. Il tasso di disoccupazione
giovanile è aumentato costantemente, arrivando quasi al 24% nel 2013.
La crisi dell’Europa è comunque frutto anche dell’aver escluso i principi della Dottrina Sociale della Chiesa dalle scelte politiche concrete, come la centralità della persona, la solidarietà, la buona sussidiarietà, la giustizia sociale ecc. Questa affermazione è confermata dai dati del Report che sottolineano le notevoli diseguaglianze in Germania, Austria e Paesi Bassi, dove la disoccupazione giovanile è inferiore al 10%. Al contrario, la condizione è particolarmente drammatica in Grecia e in Spagna, dove ha superato il 50%; e in Italia, Portogallo e Irlanda, dove ha superato il 30%.
Inoltre, i paesi con un più alto tasso di disoccupazione giovanile sono quelli in cui si aggiungono i problemi generati da una classe dirigente che non è stata capace di formulare le riforme strutturali che il passaggio dalla società industriale nazionale a quella postindustriale e globalizzata richiedeva. Questo spiega la disoccupazione di lungo termine particolarmente grave in Italia, Grecia e Irlanda, così come in Spagna, Regno Unito e Portogallo.
Questa crescita delle diseguaglianze in Europa, inoltre alimenta fenomeni di emigrazione, che
a loro volta alimentano la spirale di dequalificazione per i paesi più svantaggiati (fenomeno della “fuga dei cervelli”), a partire da quelli del Sud Europa. Tutto questo mina dall’interno il progetto, la coesione e la solidarietà dell’Unione Europea. Ma il divario tra i paesi europei non è solo sulla “quantità” di lavoro a cui possono accedere i giovani, è soprattutto sulla “qualità” del lavoro.
In Europa, la quota di giovani con contratti a termine è cresciuta durante la crisi e interessa solo i paesi del Sud Europa: ben due lavoratori su tre in Spagna (62%) e in Italia, che è il paese con la maggiore incidenza (72%). A questi drammatici numeri, va aggiunto l’uso distorto del lavoro autonomo in Italia e l’abbondante uso del part time (per i giovani europei del 32%). Questi dati sono in continua crescita.
Altra anomalia italiana: le opportunità di lavoro per titolo di studio. Se consideriamo la classe di età tra i 25 e i 29 anni, in Europa c’è una forte difficoltà per chi ha i titoli di studio più bassi. Il tasso di occupazione è del 53% per chi ha un titolo di studio primario, 72% per chi ha un titolo secondario e 79% per chi ha una laurea. L’Italia è in linea con la media dell’Unione Europea per l’occupazione di chi ha un titolo primario, mentre registra livelli più bassi per i diplomati e i laureati. In Germania, pur avendo le stesse difficoltà per i lavoratori meno istruiti, hanno risultati migliori della media europea per i più istruiti, segnale di una maggiore qualificazione dei posti di lavoro a disposizione. Anche questi dati chiamano in causa la classe dirigente del paese che non stata e non è capace di valorizzare il capitale umano dei propri giovani e gli investimenti fatti dalle famiglie e dalle agenzie formative del paese. Questo è un grave deficit che si ripercuote sul presente e sul futuro del paese.
Recentemente il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha stimato in 25 miliardi di euro la perdita per il capitale umano inutilizzato. Per affrontare i problemi delle nuove generazioni, l’Ue sta elaborando alcune proposte tra cui, in particolare, il sistema dell’apprendistato e la Youth Guarantee, considerati strumenti primari da diffondere. In Germania, Austria e Danimarca, dove il sistema dell’apprendistato è particolarmente efficace e le politiche attive per il lavoro collegate a buoni percorsi di formazione, la disoccupazione ha avuto infatti un impatto minore.
Le politiche occupazionali, dunque, potranno avere successo solamente se terranno in considerazione il passaggio della società a bassa intensità tecnologica (società moderna) a società ad alta intensità tecnologica (società postmoderna), e se studieranno come inserire questa rivoluzione all’interno di un cambiamento di sviluppo sostenibile, volto a favorire l’aumento dei buoni posti di lavoro non attraverso “la solo flessibilità” (che produce solo lavori dequalificati), ma attraverso la qualificazione del lavoro, delle aziende e dei territori.
Proprio questo genere di azioni è al primo posto degli obiettivi delle parti sociali europee (Businesseurope, Ceep, Ueapme e Ces), le quali hanno presentato, a giugno 2013, un accordo sull’occupazione giovanili. Tre i punti chiave previsti: creare più posti di lavoro, soprattutto buoni posti di lavoro, con opportunità di carriera per i giovani; rafforzare gli investimenti in qualità dell’istruzione e della formazione; rafforzare il ruolo dell’industria, in particolare delle piccole imprese, e dei servizi pubblici di alta qualità per favorire uno sviluppo sostenibile e inclusivo.