La morte di Galilei non chiude comunque la questione galileiana, essa infatti si trascinerà per secoli in una situazione di imbarazzo per la chiesa realizzando quanto Galilei aveva in un certo senso previsto:
Avvertite, teologi, che volendo fare materia di fede le proposizioni attenendi al moto ed alla quiete del sole e della terra, vi esponete a pericolo di dover forse col tempo condannar d’eresia quelli che asserissero, la terra star ferma e muoversi di luogo il Sole: col tempo, dico, quando sensatamente o necessariamente ci fusse dimostrato, la Terra muoversi e ‘l sole star fisso[1]
Ritorna in queste parole il pensiero già espresso dallo scienziato pisano nella lettera a Benedetto Castelli che abbiamo analizzato: il fatto di impiegare le Scritture in argomenti che non sono di fede è un pericolo per la fede stessa. D’altra parte Galilei ammette in sordina di avere portato parecchie prove a favore del moto della terra e della stabilità del sole, ma non una certa e incontrovertibile che avrebbe necessariamente messo a tacere i suoi avversari.
Una prima forma di imbarazzo si riscontra subito alla morte del Galilei. Il Granduca di Toscana avrebbe voluto onorare l’illustre pisano con una tomba sontuosa e monumentale vicina a quella di Michelangelo Buonarroti, ma le pressioni del Papa sul Granduca di Toscana furono tali che Galilei ha potuto avere un mausoleo degno della sua fama solo nel 1737[2]. Scrive lo storico Franco Cardini: “È utile ricordare che tale concessione avvenne durante il pontificato di Clemente XII, il Papa che affidò all’architetto fiorentino Alessandro Galilei, pronipote dello scienziato, la costruzione delle facciate di San Giovanni in Laterano e di San Giovanni dei Fiorentini”[3].
Quello dell’autorizzazione della tomba fu un primo segnale di disgelo nei confronti di Galileo, altri segnali si ebbero in modo lento nel corso degli anni e addirittura dei secoli successivi.
Nel 1741 il Sant’Uffizio autorizzò la prima edizione italiana delle opere di Galileo, con esclusione della lettera a Cristina di Lorena. Il curatore di tale edizione fu l’abate Giuseppe Toaldo[4].
Si deve a Benedetto XIV l’espunzione di tutti i libri che insegnano la teoria copernicana dall’indice dei libri proibiti nella edizione del 1758.
Un passo importante di ebbe nel XIX secolo con il “caso Settele”. Giuseppe Settele[5] era un canonico professore all’università “La Sapienza” di Roma e nel 1818 aveva dato alle stampe un volume intitolato “Elementi di ottica e astronomia”. Avendo richiesto di pubblicare un secondo volume nel quale si dava per verità certa l’eliocentrismo, gli venne risposto negativamente dal domenicano Filippo Anfossi, Maestro del Sacro Palazzo, poiché a suo avviso, la teoria copernicana, oltre ad andare contro la Scrittura, contro il comune insegnamento dei Padri della Chiesa, era anche stata condannata da decreti del Sant’Uffizio. Solo grazie all’aiuto del domenicano Maurizio Olivieri, commissario del Sant’Uffizio, Settele riuscì a pubblicare il secondo volume della sua opera.
Particolarmente interessante è la lettura che Maurizio Olivieri fa dell punto di vista degli inquisitori che avevano condannato la teoria copernicana prima e Galilei poi. Scrive Annibale Fantoli: “Nelle sue Riflessioni, Olivieri aveva sostenuto che la teoria originale di Copernico, accettata anche da Galileo, era del tutto insoddisfacente dal punto di vista della “filosofia naturale” del tempo. Ad esempio, l’ignoranza che l’aria avesse un peso e quindi fosse soggetta alla gravità, aveva impedito a Galileo di spiegare in modo soddisfacente l’assenza dei venti violentissimi che sarebbero dovuti risultare dai moti di rotazione e rivoluzione della Terra. Secondo Olivieri, era per questi motivi di “filosofia naturale”, più che per motivi teologici, che il Sant’Uffizio e la Congregazione dell’Indice avevano condannato il Dialogo, come la stessa teoria copernicana”[6].
L’epilogo di questa vicenda si ha nel 1822, quando il Sant’Uffizio, in data 11 settembre, emana un decreto che permette le pubblicazione di tutte le opere che trattano della mobilità della terra e della immobilità del sole.
Un velato accenno al “caso Galilei” si ha nell’enciclica Provvidentissimus Deus di Leone XIII. Scrive Papa Pecci a proposito di coloro che hanno erroneamente interpretato i passi scritturistici:
Essi nel caso della spiegazione di luoghi scritturistici che trattano questioni fisiche, si attennero alle opinioni del tempo, con il risultato che forse non sempre giudicarono con verità, affermando cose che oggi non sono più approvate
Nel XIX secolo l’imbarazzo provocato da “caso Galilei” portò la Pontificia Accademia delle Scienze a volere una pubblicazione che facesse luce sulla questione in occasione del terzo centenario della morte dello scienziato pisano. La redazione di tale opera fu affidata a mons. Pio Paschini docente e rettore del Pontificio Ateneo Lateranense. Poiché l’opera metteva in chiaro le responsabilità degli uomini di chiesa nella vicenda, il libro non fu pubblicato. Venne di nuovo alla luce nel 1964 durante la fase finale del Concilio Vaticano II in concomitanza con la redazione della Gaudium et Spes. Nella costituzione pastorale si legge:
A questo punto, ci sia permesso di deprecare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancano nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro.[7]
A queste parole viene aggiunta una nota che rimanda al testo di Paschini appena ripubblicato:
Cfr Mons. Pio Paschini, Vita e opere di Galileo Galilei, 2 vol.. Pont. Accademia delle Scienza. Città del Vaticano 1964.
L’ultima e ampia riabilitazione di Galilei è avvenuta con il Pontificato di Giovanni Paolo II. Nel 1979, parlando alla Pontificia Accademia delle Scienze, il papa polacco affermò che Galilei
Ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto e deplorato certi interventi indebiti[8]
Il papa continuava dicendo:
Per andare al di là di questa presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, uomini di scienza e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galilei e, riconoscendo lealmente i torti, da qualunque parte essi vengano, facciano scomparire le diffidenze che questo affare frappone ancora, in molti spiriti, ad una concordia fruttuosa fra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. Do tutto il mio appoggio a questo compito che potrà onorare la verità della fede e della scienza e aprire la porta a future collaborazioni.[9]< /em>
La commissione auspicata dal pontefice si insediò due anni dopo e venne divisa in 4 sezioni autonome: esegetica, culturale, scientifico-epistemologica e storico giuridica. Solo in 7 occasioni fra il 1981 e il 1983 ci furono delle sedute plenarie. Dopo uno stallo durato 7 anni, nel maggio del 1990 il cardinale Poupard[10] venne incaricato di presiedere e coordinare i lavori che terminarono nel 1992 con un discorso papale tenuto il 31 ottobre che può essere considerata la conclusione del “caso Galilei”
Conclusione
Abbiamo così concluso questa nostra analisi storica e teologica sul rapporto scienza-fede. Se è vero che il problema è stato analizzato ampiamente in contesti diversi come quello storico, filosofico, teologico, è altrettanto vero che il dibattito rimane comunque aperto, grazie ai continui e ininterrotti contributi che di anno in anno si vanno ad assommare alla precedente produzione scientifica.
[La quinta parte è stata pubblicata sabato 22 giugno]
Link originale: http://www.ancoraonline.it/2013/06/29/la-questione-copernicana-e-il-caso-galilei-sesta-ed-ultima-parte/