La Sinfonia corale “La sofferenza degli innocenti”, realizzata dall’iniziatore del Cammino Neocatecumenale, Kiko Argüello, con l’aiuto di un folto gruppo di musicisti spagnoli e italiani, non è il primo pezzo di musica, nella tradizione occidentale, in cui vengono utilizzate le risorse melodiche o strumentali derivate dalla musica giudaica. A tal proposito, sono diversi i compositori che potrebbero venire in mente. Tra questi spicca Ernest Bloch (1880-1959), compositore nato in Svizzera e autore di numerose opere ispirate alla tradizione musicale ebraica, dal suo famoso Baal Shem per violino e pianoforte, o alla successiva Suite Hebraica. Ma anche Maurice Ravel (1875-1937), si era interessato al repertorio musicale ebraico, dal quale adattò le sue due Melodías Hebraicas.
Il contatto tra le cultura musicale ebraica e quella cristiano-occidentale non è stato però unidirezionale: il popolo ebraico ha sempre incorporato nella propria musica elementi delle tradizioni musicali con cui veniva a contatto in Europa. Si consideri, ad esempio, l’appropriazione di strumenti come il violino e il clarinetto, divenuti icone musicali della cultura ebraica mondiale, o l’assorbimento di elementi essenziali della grammatica musicale occidentale, a partire dal XVIII secolo, come un linguaggio armonico normalizzato espresso tipicamente con l’uso dell’organo e l’accompagnamento del canto sinagogale.
Tuttavia, la Sinfonia di Kiko Argüello è la prima in cui, su un linguaggio musicale ispirato ad elementi melodici, timbrici e, in alcuni punti, sintattici del mondo sonoro del giudaismo, si comunicano esplicitamente contenuti cristiani, ovvero la Passione e Risurrezione di Gesù Cristo, in un contesto performativo paraliturgico nel quale si riuniscono ebrei e cristiani. Sulle virtù di questo nuovo tipo di celebrazione – al di là degli aspetti strettamente musicali – è già stato scritto tanto. Non bisogna dimenticare però che, in gran parte, sono proprio certe qualità musicali che hanno spinto la lettura di questa celebrazione in chiave di una “riconciliazione”.
Così, ad esempio, la semplicità strutturale (non semplicistica) di questo canto sinfonico, il ricorso alla ripetizione – molto comune nei niggunim (melodie) – come un generatore di forma, o l’evitare tessiture opache contrappuntisticamente parlando, che pongono in primo piano il significato musicale dei timbri. È il caso dell’uso del violino o della viola a solo con uno stile improvvisato e una ornamentazione che ricordano quella dei klezmerim, nel primo movimento Getsemani. O soprattutto, il dialogo mantenuto dai due clarinetti – uno utilizzando una tecnica di esecuzione propria della sinfonia occidentale, l’altra usando il vibrato e microtonale ornamentazione proprio klezmer clarinetto – all’inizio del secondo movimento Lamento. Inoltre, nell’ultimo movimento Resurrexit, è possibile ascoltare gli echi dello shofar nei ricorrenti squilli di tromba, il cui motivo iniziale è basato su un intervallo di quinta perfetta, tipico dello strumento giudaico.
Questa fusione, nell’ambito puramente musicale, tra testo cristiano e sonorità provenienti direttamente o indirettamente dalla musica ebraica, permettono di ottenere un risultato espressivo. Esso consente ad un pubblico ebraico che mantiene vivo il ricordo delle sofferenze inflitte alla sua gente in Europa per secoli, di interpretare la sinfonia come un sollievo dal dolore da parte della Vergine Maria e, in essa, di tutti i cristiani, per la morte del suo Figlio innocente (ci sono testimonianze dirette di ascoltatori ebrei di quest’opera che avvallano questa lettura). È come se attraverso la celebrazione sinfonica condivisa già con tanti fratelli del popolo d’Israele – di cui il canto sinfonico “La sofferenza degli innocenti” è, in un certo senso, il cuore – si dia alla Chiesa un nuovo adempimento del mandato divino consegnato al profeta Isaia (40, 1-11): “Consolate il mio popolo e parlate al cuore di Gerusalemme, proclamate che la loro schiavitù è finita.”
* Ignacio Prats Arolas è Musicologo e docente presso l’Universidad CEU Cardenal Herrera