«Dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna»

Meditazione sulle letture della XII Domenica del Tempo Ordinario. Anno C

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«Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa; dove c’è la Chiesa, lì non c’è affatto morte ma vita eterna»  (S. Ambrogio, Enarrationes in Psalmos).  Pietro sulla soglia del desiderio di ogni uomo, il più profondo, il più intenso, l’anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, o gesto: la vita e mai più nessuna morte. I peccati stessi gridano il nostro desiderio di felicità eterna, che si realizza, sconnesso, in fuga da ogni sofferenza, confondendo il piacere con l’eterno esistere a cui aspiriamo. Le guerre, i divorzi, gli aborti, gli abomini genetici, e le nostre ore intrise di rabbia, malinconia, ribellioni e mormorazioni, in fondo tutto esprime la volontà di non arrendersi allo scorrere ineluttabile che sa di morte. Ma anche quando, paradossalmente, si uccide in nome della vita, dietro l’egoismo, la paura e l’inganno, si nasconde la nostalgia di pienezza che non accetta la corruzione, e vorrebbe cancellarla, goffamente e perversamente, inun appello accorato alla vita che sfugge ad ogni presa. Tutti drogati di qualcosa o di qualcuno, sperando il cristallizzarsi, seppur effimero, d’un secondo almeno, un istante di tregua e di pace dove cullare le speranze deluse vissute solo in un sogno.

Leopardi descriveva inimitabilmente i nostri sentimenti: ”Questo è quel mondo? questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano” (G. Leopardi, A Silvia). Il “vero” della storia di ogni giorno ci travolge, e ci spalanca “ignude tombe”, e dolori, e lacrime, e delusioni: ci schiantiamo sul capoufficio che ha preferito il collega, sull’immaturità ribelle del figlio, sulle analisi che rivelano valori preoccupanti; quanti ragionamenti da fidanzati, e che difficile si fa, ora che appare il vero del carattere, delle attitudini profonde del cuore, e l’egoismo trattiene per sé corpo e mente, prigionieri dell’incapacità di donarsi sino in fondo.

Di fronte a Gesù, infatti, la ragione senza la luce della fede, rimane imprigionata nella religiosità impersonale della “gente”. Per la folla anonima Egli è solo un profeta come gli altri. I suoi gesti e insegnamenti potrebbero orientare filosoficamente o ideologicamente l’esistenza, ma quando si innalzano oltre i criteri mondani, promoveatur ut amoveatur, li “eleviamo” al rango di sublimi utopie per renderli inoffensivi. Gesù resta irrilevante, e l’incontro con Lui non cambia radicalmente l’esistenza. Le sue parole scorrono sulle nostre giornate come una struggente colonna sonora, mentre le passioni, il piacere e l’egoismo travestiti da valori civili ci conducono lontani da Lui.

Ma “voi”, tu ed io, “chi dite che io sia?”. Oggi, dinanzi all’”ignuda tomba”, “chi” è Lui per me? In qualunque relazione, la conoscenza autentica scaturisce dall’amore. Nella domanda di Gesù si ode l’eco di quella che, risorto, ha posto a Pietro: “Mi ami tu più di costoro?”. Il verbo “conoscere” non si riferisce a una conoscenza meramente intellettuale; in ebraico yada’ rivela una conoscenza esistenziale e affettiva. Gesù scende oggi a cercare l’amata, tu ed io, nel suo giardino divenuto, per il peccato, una “tomba ignuda” e ci dice: “O mia colomba, che stai nelle fenditura della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro” (Ct. 2,14). 

Il Targum, la versione aramaica della Bibbia che veniva proclamata nelle sinagoghe ai tempi di Gesù e a cui erano aggiunte delle glosse interpretative, traduce così questo brano del Cantico: “E quando l’empio faraone inseguiva il popolo di Israele, l’Assemblea di Israele fu come una colomba chiusa nelle spaccature di una roccia, e il serpente cerca di colpirla dal di dentro, e l’avvoltoio di colpirla dal di fuori… e uscì una voce daicieli dell’alto, che disse: Tu, Assemblea di Israele fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi sentire la tua voce!” (U. Neri, Il Cantico dei Cantici). 

La domanda di Gesù cerca oggi il “voi” dell’Assemblea santa che, dalla fenditura della roccia, professa che solo Lui è “il Cristo di Dio”, il Crocifisso che ha vinto la morte. Egli è Dio vivo qui ed ora, per me. Gli occhi illuminati dalla fede che ha sperimentato la salvezza dove non c’era speranza, lo vedono e riconoscono laddove quelli della carne non possono: per perdonare me oggi Gesù ha dovuto “soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.

Solo uno sguardo purificato nel perdono, può riconoscere Dio onnipotente in un crocifisso. Nella precarietà, nelle contraddizioni della carne, in un corpo corruttibile, abita Dio, la Vita nella morte, nella nostra debolezza di colomba ghermita, il suo potere. Solo chi è stato perdonato e amato può “voler andare dietro a Gesù”, “rinnegando” quel “se stesso” che lo ha condotto nella tomba, e “prendere” la “sua croce”, quella che inchioda l’egoismo e l’orgoglio per distendere le braccia offrendo e “perdendo” la vita. Solo sulla Croce gloriosa del Signore risorto infatti, quella di “ogni giorno” della nostra storia, il “per me” della conoscenza diviene il “per Cristo” che “salva” la vita. Questa è la fede della Chiesa, la risposta a ogni desiderio e speranza, all’apparir di ogni vero e in tutte le ignude tombe.

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Antonello Iapicca

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