I problemi bioetici che le novità tecnoscientifiche ci impongono di affrontare sono difficili da capire. Spesso si dipanano intorno a questioni dolorose, a momenti cruciali della vita umana come la nascita e la morte, costringendoci a fare i conti con i nostri desideri individuali, a cui siamo di frequente così affezionati da non volerne vedere i necessari limiti.
Per questo è così facile dimenticare che esistono, far finta che sia stato tutto risolto, sia sul piano della discussione culturale e morale che su quello più strettamente politico da cui la gravità della crisi economica sembra, del resto, averli definitivamente sloggiati. A ricordarci l’esistenza delle questioni bioetiche ci sono, però, i tribunali. Da alcuni anni a questa parte, stanno affrontando vari aspetti della legge 40, quella che regola la procreazione assistita, cercando di cambiarne il contenuto complessivo attraverso tante modifiche parziali.
Questa tecnica di spezzare i problemi profondi e complessi che sottostanno alle questioni bioetiche in tanti casi singoli, spesso legati a esempi umani dolorosi, è una tecnica usata con successo dai radicali: invece di discutere sull’eutanasia, cioè sulla libertà di intervenire affrettando la morte di una persona, è più facile interrogarsi su un doloroso caso umano, come quello di Piergiorgio Welby, gravemente malato che chiede la morte. O, nel caso della selezione degli embrioni sani, soffermarsi sui volti di una coppia di genitori portatori di una malattia ereditaria e desiderosi – come tutti – di avere un figlio sano. Come non condividere un desiderio così normale? Così il problema, da grave questione etica, viene derubricato a caso umano, sul quale si cerca di applicare l’idea che sia possibile cancellare la sofferenza dal destino degli esseri umani, cioè l’utopia.
Non è facile mantenere la lucidità, staccarsi dal dolore che vediamo su questi volti, per riportare la questione dal piano del dolore personale a quello morale. Proprio su questo punto lavora chi vuole aprire sempre nuovi varchi all’iniziativa individuale degli esseri umani: farci credere che sia possibile orientare il destino secondo i nostri desideri.
Ma ogni tanto anche le questioni spezzettate esulano dal caso doloroso, e ci costringono ad affrontare il problema originario: ad esempio, la decisione del tribunale che vuole rendere obbligatorio l’utilizzo nella ricerca scientifica degli embrioni scartati dalla riproduzione. In questo caso siamo obbligati a confrontarci con la questione centrale: lo statuto degli embrioni. Cosa sono gli embrioni? Sono «materiale biologico» privo di valore umano, o un inizio di vita umana da rispettare? Se aderiamo alla seconda risposta, è evidente la conseguenza sul piano della ricerca: non si possono utilizzare se non applicando le regole che sono previste per la ricerca sugli esseri umani. Ma tale questione ne nasconde una ancora più profonda, sulla nostra identità: siamo solo animali più evoluti, da trattare quindi come trattiamo gli animali, o siamo qualitativamente diversi da loro, come esprime alla perfezione la definizione biblica secondo cui siamo stati creati «a immagine e somiglianza di Dio»? Non è facile rispondere al di fuori della comunità credente: non esiste più un’etica comune di riferimento, ognuno deve rispondere da solo. E allora, in ogni questione del genere, sulla ricerca della verità prevale l’esigenza di libertà e l’imperativo della scelta. Come se fosse indifferente una scelta oppure l’altra, come se non ci fossero una scelta sbagliata e una scelta giusta.
A partire proprio dal concetto di essere umano, e dal modo di definirlo, dipende, invece, come ben sappiamo, tutta una serie di opzioni etiche fondamentali che oggi dobbiamo fare. Non possiamo sfuggire a questa responsabilità!
(Articolo tratto dal «Messaggero di sant’Antonio» edizione italiana per l’estero di giugno, p. 49)