Indonesia: premiato il Presidente che non ha il coraggio di difendere le minoranze

Contattato da ACS, padre Franz Magnis-Suseno S.J. respinge la scelta dell’Appeal of Conscience Foundation

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«Un tale riconoscimento è vergognoso e confuta qualsiasi posizione possiate mai sostenere». È quanto ha scritto padre Franz Magnis-Suseno, gesuita e docente di Filosofia all’università di Giacarta, all’Appeal of Conscience Foundation (ACF), in seguito alla notizia che l’associazione Usa intendeva insignire il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono per i suoi meriti nella tutela della tolleranza religiosa e nella promozione del dialogo tra fedi.

Inutile dire che la missiva non ha ricevuto alcuna risposta né ha avuto eco nei media statunitensi, come racconta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre lo stesso religioso tedesco, che vive in Indonesia da cinquanta anni e che ha ottenuto la cittadinanza nel 1977. Yudhoyono ha ricevuto il premio, il 30 maggio scorso, nonostante le proteste del gesuita – «inorridito da tanta ipocrisia» – delle associazioni umanitarie, delle comunità religiose di minoranza e perfino di molti musulmani moderati. Ma perché un tale riconoscimento al presidente di una nazione in cui i cristiani devono aspettare 20 anni per ottenere l’autorizzazione a costruire una chiesa e ahmadi e sciiti sono vittime dell’estremismo? «Non voglio lanciarmi in congetture, ma stando a ciò che leggo sui giornali il premio serve a rilevare che, sebbene  un Paese a maggioranza islamica, l’Indonesia rappresenta un modello democratico di successo».

Eppure negli ultimi tempi la tolleranza e la libertà religiosa nell’arcipelago registrano un trend negativo, anche a causa della “timidezza” del capo di stato che «evita accuratamente qualsiasi provvedimento o dichiarazione che possa in qualche modo urtare la comunità musulmana o i gruppi estremisti». «In otto anni e mezzo di mandato – denuncia padre Magnis-Suseno – Yudhoyono non ha pronunciato una singola parola in favore del rispetto per le minoranze, né ha mai esortato gli indonesiani a convivere pacificamente». Inoltre lo studioso accusa il presidente di non aver mai ordinato alla polizia di fermare le violenze perpetrate in odio alla fede. «Alcuni agenti assistono inermi a crimini di questo tipo, nel timore d’essere perseguiti per aver violato i diritti umani. Ovviamente tutto ciò non ha alcun senso, ma significa che il presidente non ha trasmesso alcuna disposizione alla polizia nazionale».

Per padre Magnis-Suseno la storia dell’intolleranza religiosa nel Paese asiatico risale al ritorno all’Islam voluto da Suharto, nella cui presidenza si sono registrati numerosi attacchi alle chiese e veri e propri pogrom ai danni delle minoranze. Nel 2001, al termine di durissimi scontri interreligiosi che in Indonesia orientale causarono la morte di oltre diecimila tra cristiani e musulmani, l’elezione di Megawati – figlia del primo presidente indonesiano Sukarno – ha segnato l’inizio del processo di democratizzazione che «tuttavia ha permesso ai gruppi fondamentalisti di uscire allo scoperto».

Parlando con ACS il gesuita denuncia le tragiche condizioni di ahmadi e sciiti che non sono riconosciuti neanche dai musulmani moderati e che vengono “invitati” a convertirsi al sunnismo perfino dai leader islamici. «Proprio durante la presidenza Yudhoyono tanti ahmadi e sciiti sono stati uccisi e centinaia di loro sono stati cacciati dalle proprie case. Quanto accaduto è talmente grave che ci si inizia a chiedere se l’Indonesia diventerà presto come l’Iran o il Pakistan».

Rispetto a quella dei cosiddetti “gruppi deviati” la situazione dei cristiani – circa l’11,8% della popolazione di cui il 2,9% cattolici – è decisamente migliore, sebbene non manchino episodi di intolleranza e numerosi attacchi alle chiese: più di mille negli ultimi venti anni. Proseguono inoltre le chiusure forzate delle chiese e si confermano le enormi difficoltà nell’ottenere permessi per la costruzione degli edifici religiosi. «Pur con tutte le carte in regola, alcune comunità – specialmente nella provincia di Giava occidentale – aspettano più di venti anni prima di avere una nuova chiesa».

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ZENIT Staff

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