1. A parole tutti per i bambini…
La condizione dei bambini nel nostro Paese vive da molti anni all’interno di un paradosso: da un lato la tutela dell’infanzia è sempre più presente nel discorso pubblico, nell’impegno dei media, nella sensibilità della pubblica opinione, nella progettualità dei decisori della pubblica amministrazione, sia politici che tecnici. Dall’altro, troppo spesso l’organizzazione sociale li dimentica, a volte li utilizza, altre volte addirittura li “violenta”. Il primo passo necessario è quindi uscire dalla retorica, e verificare in concreto quali scelte e quali luoghi sono capaci di garantire i diritti dei bambini, riconoscendone la piena dignità di persone e cittadini. Ad esempio, la politica non può celebrare la Giornata dell’Infanzia in pompa magna, con convegni, istituzioni dedicate, piani nazionali, e contemporaneamente mantenere in vita un sistema fiscale che è totalmente indifferente ai carichi familiari. La nascita del terzo figlio troppo spesso determina la povertà di una famiglia nel nostro Paese; in effetti a livello europeo siamo tra i Paesi con il più alto tasso di povertà minorile, legato soprattutto alle famiglie numerose. Come si fa a dire, allora, che l’Italia è un Paese per bambini, se vengono trattati come un “bene di lusso” scelto solo dai loro genitori?
Ma non si tratta solo di politica: ad esempio, nel sistema economico e nella cultura organizzativa del lavoro la nascita di un figlio è ancora troppo spesso motivo di espulsione della madre dal mercato del lavoro, e la conciliazione dei tempi di lavoro e familiari è pressoché totalmente scaricata sull’adattabilità delle famiglie. Allora ben vengano opere di solidarietà promosse e sponsorizzate dalle imprese, a favore dell’infanzia abbandonata: ma prima occorre costruire regole organizzative interne e percorsi lavorativi in cui sia possibile vivere da madre o da padre, tenendo insieme famiglia e lavoro, con una flessibilità finalmente “a misura di famiglia”.
Né le famiglie possono chiamarsi fuori da questa ambivalenza: in troppe famiglie, in effetti, i figli non sono accompagnati in modo autorevole nel percorso di crescita, da genitori che accettano la sfida educativa, ma troppo spesso vengono abbandonati a se stessi, in un’idea ingannevole di libertà assoluta. Altre volte i figli sono invece considerati semplicemente una protesi al narcisismo degli adulti, nella rivendicazione di un inaccettabile diritto assoluto “ad avere un figlio”.
In breve, la cura dei bambini chiama l’intera società e ogni adulto ad una rinnovata responsabilità: meno parole, più fatti.
2. Due pilastri dei diritti dei bambini: vita e relazioni educative
La nostra società ha inoltre troppo spesso censurato il tema dell’accoglienza della vita, presupposto antropologico di una seria riflessione sull’infanzia. I difensori dei diritti dei bambini non possono non confrontarsi con il paradosso (un altro!) di una cultura che rendendo possibile l’aborto ha di fatto “limitato” il diritto basilare dei bambini, quello di poter nascere. La piena tutela della vita “già nata” sembra poco credibile da parte di chi pretende che si possa decidere “se” una vita può nascere oppure no.
L’inviolabilità e la dignità di ogni essere umano, dal concepimento fino alla fine naturale dell’esistenza, è valore fondativo, irrinunciabile, e ammettere una sua limitazione significa rendere più difficile la piena esigibilità dei diritti in ogni fase della vita: quindi, anche dei bambini1.
L’accoglienza della vita esige però immediatamente la responsabilità di una relazione, che si configura da subito nei codici della cura, della gratuità e dell’educazione. Il cucciolo d’uomo, per diventare adulto, ha bisogno da subito di un “tu” in cui rispecchiarsi, insieme quale riscoprire il proprio “io”.
Per questo un diritto ineliminabile dei bambini, sancito e riconosciuto in tutte le carte, è proprio il diritto di ogni bambino di poter vivere la propria vita insieme ai propri genitori. Il diritto a relazioni educative, in primis con i propri genitori, è quindi il secondo pilastro su cui deve fondarsi una riflessione sulla tutela e sulla promozione dell’infanzia nella nostra società. La centralità dei genitori nella responsabilità educativa, di accudimento e di cura nei confronti dei bambini è stata spesso contestata da un approccio ideologico “pubblicocentrico”, che sosteneva che i processi educativi non possono essere democratici né garantire pari opportunità per tutti se non sono assicurata dal sistema pubblico, unico garante neutrale dei diritti di tutti. Si innescava così una fuorviante contrapposizione tra una responsabilità educativa familiare giudicata negativa perché privatizzata, corporativa e “ad personam”, e uno Stato etico capace di garantire ciascuno perché capace di dare equamente le stesse opportunità a tutti. La storia del Novecento e degli primi decenni del ventunesimo secolo ha fatto giustizia di questo pregiudizio, anche se molti nostalgici cullano ancora l’illusione – una tentazione davvero avvelenata – che si possano costruire, con le profetiche parole di Eliot, «sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono» (Cori della Rocca, 1934), cioè persone morali e responsabili, mentre questi progetti di ingegneria sociale generano invece oppressione, tirannia, infelicità. La sfida educativa chiama invece in prima battuta la responsabilità dei genitori, per custodire la nuova vita con la lenta, paziente e tenace cura educativa. Sicuramente la prima e più importante deprivazione che un bambino può patire è l’assenza della relazione con i propri genitori.
La genitorialità ha poi una duplice connotazione, biologica e culturale, che in qualche modo viene sollecitata dai bisogni dei nuovi nati; nasce e si riscopre, in un certo senso, in modo relazionale, nell’incontro con un altro bisognoso, il figlio, inerme e dipendente. Essa nasce quindi, sempre in questa prospettiva, da un duplice inizio, non sempre inevitabilmente coincidente, trova cioè la sua origine sia nella dimensione biologica, sia in quella culturale.
Si potrebbe dire, con altre parole, che genitori si diventa attraverso un duplice percorso: quello biologico, generativo, e quello culturale, educativo, della cura, dell’accudimento. E’ quindi “naturale”, possibile per tutti, essere genitori, ma la genitorialità è inevitabilmente sociale, condivisa, non può essere solo “schiacciata” sul dato biologico. Questo si svela (e si impara) in modo esemplare nelle esperienze dell’adozione e dell’affido, dove l’esperienza stessa rivela che essere veri genitori non dipende dai legami di sangue. Come diceva Dostoevskij nel drammatico “I fratelli Karamazov”, non è padre chi genera la vita, ma chi la genera e merita di essere chiamato tale. Non è possibile sfuggire da questo spazio di responsabilità educativa, naturale e sociale, che non riguarda solo la cura e la protezione, ma più propriamente l’intera opera dell’accompagnare verso la vita.
3. Nessuno educa da solo, nemmeno una madre…
Infine, la sfida educativa da sempre è stata “impresa condivisa” tra genitori e società, e la dimensione familiare stessa dell’educazione si è sempre misurata con un “esterno familiare”, costituito da altre agenzie educative, dalle comunità di appartenenza, da altri soggetti e istituzioni che in vario modo accolgono e introducono i nuovi nati verso una condizione adulta che implica anche ruoli e responsabilità sociali di bene comune. Per questo la parola decisiva, oggi, nella sfida educativa, è alleanza tra famiglia e società: nella scuola, nei confronti dei media, verso le altre agenzie educative più o meno formali (associazionismo, attività sportiva, gruppo dei pari): ai bambini occorre cioè proporre un sistema sociale che vede le nuove generazioni come la speranza di futuro di un popolo. Occorre quindi ripensare i sistemi di
protezione dell’infanzia a partire dall’idea che nessuno, oggi, può pensare di fare da solo, e che le fragilità di ciascuno possono essere sostenute da un esplicito patto di collaborazione. Solo così le crescenti fragilità educative delle famiglie potranno trovare non condanna od espropriazione, ma sostegno e aiuto per “restare nel gioco dell’educazione”, senza arrendersi. Solo così la scuola potrà guardare alla famiglia come un alleato, e non come il principale imputato delle fragilità dei ragazzi.
Solo così il sistema socio-sanitario e giuridica di protezione dei diritti dei bambini potrà uscire da un vecchio e deleterio modello che cerca e riconosce solo i deficit delle famiglie (pur esistenti, spesso in modo drammatico), verso un modello di “empowerment”, che va alla ricerca delle risorse e delle capacità residue delle reti familiari, anche di quelle più fragili.
Solo una vera “comunità educante” saprà custodire davvero le nuove generazioni, insieme alla famiglia, e non contro di essa: per questo sostenere che “per educare un bambino serve un intero villaggio” non significa espropriare i genitori delle loro responsabilità educative, ma piuttosto non lasciarli da soli.
* Direttore Cisf,
Centro Internazionale Studi Famiglia
Presidente del Forum delle associazioni familiari
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NOTA
1 Per questo è fondamentale sostenere la campagna europea di raccolta firme “Uno di noi”, lanciata nel maggio 2012 fino ad ottobre 2013, per riconoscere che l’essere umano è persona “fin dal concepimento”, e quindi è da subito vita, intera, come ogni altro essere umano: uno di noi, appunto! (cfr. www.oneofus.org)
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