La politica al tempo dei princìpi non negoziabili: questo potrebbe essere un titolo alternativo al libro di Giorgio Gibertini, un militante generoso e giovane che ha messo in fila pensieri, letture e soprattutto esperienze che nascono dalla sua fede personale e dal suo impegno pubblico a difesa della vita. Giorgio è un giovane che si è trovato a vivere nel periodo della questione antropologica, una condizione che lo interroga e alla quale cerca di dare risposte a partire dal proprio vissuto.

La nuova generazione di politici cattolici auspicata più volte dai nostri vescovi, infatti, non può essere nuova solo per quel che riguarda l’età dei protagonisti: quello che serve è una nuova comprensione, da parte dei cattolici che vogliono occuparsi di politica, degli enormi cambiamenti introdotti dalla tecnoscienza nell’esperienza umana.

Solo da tale comprensione può derivare la capacità di attrezzarsi in modo adeguato per affrontare il futuro, per accogliere o respingere le innovazioni, ma soprattutto per governarle e regolarle.

Parlare di princìpi non negoziabili significa infatti indicare la bussola per orientarsi nella questione antropologica, espressione che riassume perfettamente il problema centrale del nostro tempo. Un tempo in cui i fondamenti antropologici della comunità umana, preesistenti al cristianesimo e condivisi da esso, vengono messi in discussione dagli sviluppi della scienza in un mondo oramai secolarizzato.

Si aprono infatti scenari impensabili fino a ieri, e l’essere umano ha la possibilità di scegliere in ambiti, come la procreazione, la selezione genetica, la compravendita di parti del corpo, che una volta non erano a disposizione dell’uomo e delle sue decisioni, e su cui non si poteva intervenire.

L’evento che ha segnato simbolicamente — ma anche concretamente — l’inizio di questa nuova epoca è la nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta. Un fatto che non è stato percepito nella sua assoluta e sconvolgente novità quando, nel luglio del 1978, ne fu data notizia. In Italia era stata approvata da poco la legge che depenalizzava e regolava l’aborto, c’era stato l’assassinio di Aldo Moro, e tutto il mondo cattolico ricorda quell’anno come quello dei tre papi.

Eppure quell’evento ha segnato una cesura profonda nella storia, e Louise, la bambina concepita per la prima volta, nelle secolari vicende dell’umanità, al di fuori del grembo materno, ha aperto una nuova era.

Si è trattato innanzitutto della possibilità di formare un embrione non più nel modo naturale, cioè attraverso una relazione fra un uomo e una donna, ma interamente in laboratorio, nelle mani di esperti; le stesse mani che poi lo hanno trasferito in un grembo femminile.

Mai fino ad allora un minuscolo embrione era stato così visibile e soprattutto manipolabile da parte di altri esseri umani. L’aborto è ancora un fatto riconducibile a categorie concettuali consuete (e infatti esiste fin da tempi remoti), mentre ora si tratta di qualcosa di impensabile e rivoluzionario.

La procreazione fuori del rapporto sessuale rende l’embrione umano un semplice materiale biologico, che si può «costruire» in una provetta, si può manipolare e distruggere. Sulla distruzione seriale di embrioni (peraltro formati appositamente per essere smembrati) si basa la ricerca sugli embrioni umani, che per alcuni anni ha avuto l’obiettivo di arrivare alla clonazione umana, sia pure a scopo «terapeutico».

Sempre con la giustificazione della libertà della ricerca scientifica si è consentito di tentare la clonazione umana e di formare addirittura embrioni umano/animali: esperimenti estremi che nessuno è mai riuscito a realizzare pienamente (gli embrioni formati per questi scopi si sono spenti dopo le prime divisioni cellulari e non è stato mai possibile ricavarne cellule staminali), ma per permettere i quali si è aperto un acceso dibattito, Parlamenti hanno legiferato e fiumi di denaro sono stati — inutilmente — investiti.

Ma se questi fatti non hanno toccato direttamente la vita quotidiana degli italiani (a parte le discussioni a cui abbiamo assistito in tv e letto sui giornali), altrove le cose sono molto diverse. La possibilità di procreare esseri umani in laboratorio ha consentito la formazione di quelle che chiamiamo «nuove famiglie», in cui si distingue fra genitori sociali — quelli che hanno voluto un bambino, e ne hanno disegnato la procreazione e la gestazione, per prendersene cura poi, dopo la nascita — e quelli biologici, che invece hanno fornito, attraverso una operazione contrattuale e commerciale, i propri gameti e l’utero.

Tecnicamente è possibile oggi che un bambino abbia fino a sei genitori, ma di bambini con cinque genitori ce ne sono a migliaia: una donna mette a disposizione al miglior offerente i propri ovociti, da un’altra si affitta l’utero, una terza sarà la madre legalmente riconosciuta; un uomo ha venduto il proprio seme e un altro è il padre che riconosce questo bambino come proprio e si impegna a crescerlo e prendersene cura.

È così che le coppie omosessuali possono imitare una famiglia naturale: due maschi possono avere un figlio biologicamente legato a uno dei due, con ovociti e utero di donne che non hanno mai conosciuto, semplicemente commissionando la gravidanza ad opportune cliniche specializzate, alle quali spediscono il proprio liquido seminale. La definizione di famiglia è legittimata dal fatto che esiste una prole legalmente riconosciuta come propria dalla coppia gay: i figli procreati in laboratorio, con tutte le varianti che la tecnica permette, sono lo strumento con cui vengono legittimate le «nuove famiglie» o «famiglie plurali».

Con la fecondazione in vitro l’equiparazione delle famiglie naturali — come quella descritta dalla nostra Costituzione come «società naturale fondata sul matrimonio» — a quelle basate su unioni omosessuali, è più facile, perché l’opzione procreativa in qualche misura consente di non parlare più solo di coppia, ma di famiglia: c’è un figlio biologicamente legato a un membro della coppia e questo cambia le cose.

L’utero in affitto, la fecondazione eterologa va bene sia per coppie omo che eterosessuali, e se l’attenzione è tutta incentrata sul desiderio del figlio, sul fatto che è «voluto da una coppia che si ama», la questione che a volerlo siano un uomo e una donna oppure due maschi o due femmine passa in secondo piano.

È di fronte a situazioni inedite come queste che si sente la necessità di politici attrezzati a comprendere e affrontare il cambiamento, una nuova generazione di cattolici impegnati in politica; perché spesso le categorie tradizionali di giudizio non funzionano più e possono addirittura creare ambiguità e indurre in errore.

Un esempio è proprio quello delle nuove famiglie. Fintanto che la nascita è stata un evento legato al matrimonio e confinato al suo interno, le politiche per il sostegno alla natalità sono state anche politiche a sostegno della famiglia: nell’ambito di una visione naturale delle relazioni fondanti, parlare di nascita, famiglia e matrimonio è quasi la stessa cosa, e il fatto che il matrimonio sia fra un uomo e una donna è dato per scontato (come avviene nella nostra Costituzione, ad esempio, perché non stiamo parlando solo di morale cristiana, ma anche laica).

Ma nel momento in cui si riconosce la legittimità delle unioni omosessuali, quando il matrimonio è affiancato, nel quadro normativo, da unioni precarie tipo Pacs francesi, ecco che le politiche per la natalità rischiano di non coincidere più con quelle per la famiglia. In Francia, per esempio, è vero che le nascite sono favorite da provvedimenti e norme generose, come ricorda anche il nostro autore, e che questi provvedimenti hanno prodotto buoni risultati, fermando l’inverno demografico.

Ma è anche vero che, non essendoci alcuna distinzione fra genitori conviventi, sposati e single, quelle stesse politiche hanno spesso favorito un fenomeno sociale devastante: la maggior parte dei bambini nasce ormai fuori del matrimonio, un dato che di per sé dice quanto sia avanzata la crisi della famiglia in quel Paese.

Non a caso stiamo parlando dello stesso Paese in cui gli aborti sono sempre aumentati, specie fra le giovanissime, e mai diminuiti; stiamo parlando dello stesso Paese in cui la pillola del giorno dopo è a disposizione negli armadietti scolastici per le adolescenti, a partire dagli undici anni, e non c’è obbligo di informare i genitori; stiamo parlando del Paese che oggi, dopo i Pacs, sta introducendo il matrimonio omosessuale, con possibilità di adozione.

La nuova generazione di politici cattolici deve essere coraggiosa, perché fare politica in nome della famiglia non basta più, visto che non si è più d’accordo su cosa significhi la parola famiglia. È necessario sostenere esplicitamente e consapevolmente il matrimonio, specificando che si tratta di quello fra un uomo e una donna, e prevedere per questo forme di premialità. (…)

Ci aspetta un grande lavoro, che le incertezze del quadro politico rendono ancora più complesso. Ma non siamo all’anno zero: la campagna referendaria intorno alla legge 40, la manifestazione nazionale del Family day, così come la battaglia sul caso Englaro, sono solo gli esempi più evidenti di importanti passi fatti nel nostro Paese in questa direzione.

E una nuova generazione di politici cattolici, insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, come l’autore di questo libro, è chiamata a continuare il cammino intrapreso.