I miei anni con Papa Giovanni XXIII è il titolo del libro che raccoglie le conversazioni dell’Arcivescovo Loris Francesco Capovilla con don Ezio Bolis, direttore della Fondazione Papa Giovanni XXIII (Rizzoli 2013). Le sue pagine danno voce a un’intensissima testimonianza di vita, dove la piccola storia di un prete veneziano, segretario fra il 1953 e il 1963 prima del Patriarca Roncalli e poi dello stesso, divenuto Vescovo di Roma, si fonde con la grande storia della Chiesa e dell’umanità nella seconda metà del XX secolo. La continua mescolanza di piccolezza e di straordinarietà, di umiltà e di consapevolezza delle grandi opere che andavano compiendosi sotto i suoi occhi, danno alla testimonianza di quel prete un tono al tempo stesso intimo e solenne, familiare e di singolare portata storica.
Quel testimone ha oggi novantotto anni, e brilla tanto per la sua fede ardente, quanto per la memoria portentosa e l’intelligenza vivissima, pronta a dare attenzione a tutto e a tutti. Suo successore a Chieti come pastore di un popolo cui egli è restato legatissimo, ho il privilegio di una continua comunicazione con lui, che amo chiamare il mio “Mosè sul monte”, perché so quanto e come sostenga il nostro cammino di Chiesa con la tenacia e la perseveranza nella sua preghiera, così come il grande liberatore d’Israele aveva sostenuto il suo popolo nelle prove del cammino verso la Terra Promessa. Anche per questo ho letto questa sua “confessione” con partecipazione tenera e commossa, quasi ascoltando la sua voce e sentendo il suo cuore pulsare dietro ogni parola. Vi ho ritrovato la sua freschezza interiore, la sua passione per Cristo e per la Chiesa, il suo amore viscerale per tutto ciò che è umano, la sua libertà vigile e profetica. Di lui sento di poter dire ciò che egli afferma del “suo” Papa amatissimo: “Non è questione di calcoli né di rischi. Giovanni non era un temerario. Era un uomo di fede. E la fede fu sempre l’unica sua guida…” (p. 112). Mi limito a sottolineare tre tratti di questa testimonianza, luminosa per tutti.
Il primo è l’umiltà con cui essa è resa: virtù poco di moda, l’umiltà fu caratteristica costante di Giovanni XXIII. Raccontando della prima volta che il Papa gli aveva parlato dell’idea di un Concilio, Capovilla confessa di non essersi dichiarato d’accordo con lui per la paura che l’età avanzata del Pontefice non gli avrebbe consentito di portare a termine l’opera iniziata. La risposta di Giovanni gli entrò nel cuore come un insegnamento che avrebbe portato con sé per tutta la vita: “Tu dimentichi che le cose non si fanno per fare bella figura, ma per obbedire a Dio. È solo quando avrai messo il tuo io sotto i piedi che potrai dirti davvero un uomo libero!” (p. 106). Anche per questo, quanto don Loris ha deciso di raccontare è un vero dono: “A pesarmi – confessa – è stata la necessità di uscire dal mio piccolo ruolo di silenzioso comprimario, di fedele contubernale” (p. 205). La deliziosa immagine cameratesco-militare la dice lunga su come Capovilla si sia sempre posto rispetto al Papa buono: nell’ombra, come un figlio e un servitore fedele, e proprio così come un discepolo che dal suo maestro ha saputo imparare ciò che più conta, l’umiltà.
Un secondo tratto che pervade queste pagine è l’amore al dialogo: anche in questo il discepolo non è stato da meno del maestro. Riferendosi al Papa buono Capovilla sottolinea come egli fosse del tutto consapevole delle resistenze e delle paure che la sua apertura a tutti poteva suscitare. E osserva: “Aprirsi al dialogo vuol dire necessariamente abbassare le difese: un rischio per molti inaccettabile. E invece è proprio quel rischio che alimenta le possibilità della pace universale, della fratellanza fra gli uomini” (p. 140).
Ai tanti episodi del pontificato giovanneo che mostrano il concreto realizzarsi di queste parole, narrati nelle pagine del libro con appassionata partecipazione, si lega l’attitudine dello stesso don Loris, uomo del dialogo, capace di accogliere tutti e di far sentire ciascuno caro al suo cuore, anche il più lontano per scelte o convinzioni profonde. Sembra qui di leggere la grande sintonia fra questa scelta dialogica e il costante richiamo che Papa Francesco sta rivolgendo alla Chiesa perché abbandoni ogni autoreferenzialità e vada verso tutte le periferie, tanto geografiche quanto esistenziali. E si comprende l’entusiasmo del vecchio segretario di Giovanni XXIII per lo stile e il messaggio di questo Papa, venuto “dalla fine del mondo”.
Infine, è l’amore il terzo tratto che pervade le pagine di questo bellissimo libro: amore a Cristo, alla Chiesa, all’umanità intera. È l’amore del Papa buono verso il suo Signore, a cui si abbandona con fiducia in ogni momento della vita, e tanto più nelle ore della prova e della fatica. È l’amore alla Chiesa, considerata come Sposa di Cristo e proprio per questo serva dell’umanità, inviata non a farsi strada, ma a fare strada ai poveri sulle vie di Dio, che sono vie di giustizia e di pace per tutti. È l’amore verso ogni essere umano, quale che sia la sua storia, la sua cultura, il colore della sua pelle o il tenore delle sue idee.
Per un simile amore, don Loris ha vinto la sua ritrosia e ha accettato di raccontare in queste pagine qualcosa di sé: è evidente che lo ha fatto perché il segno straordinario gettato nei solchi della storia da Giovanni XXIII possa risaltare ancora e meglio oggi, specie per chi non ha vissuto la stagione del Concilio, e perché la grazia di aver condiviso quella straordinaria ora del cammino del popolo di Dio nel tempo possa raggiungere altri e contagiarli all’accoglienza fiduciosa di ciò che ormai cinquant’anni fa lo Spirito ha detto alla Chiesa nella meravigliosa Pentecoste che fu il Vaticano II.
Monsignor Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
(Il testo è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” di giovedì 23 maggio 2013, p. 37)