Ascoltare gli interventi di oggi mi ha richiamato alla mente una frase di Jerome Lejeune, il grande medico ricercatore francese della prima metà del novecento, scopritore della trisomia 21: “sono medico per curare la malattia e non per eliminare il malato”.
Si potrebbe obbiettare che i tempi sono cambiati e che abbiamo a disposizione tecniche diagnostiche prenatali precocissime, impensabili fino a pochi decenni fa, ma credo che Lejeune ripeterebbe ancora quella frase per indicare quale sia la vera dignità della vita umana e della professione medica.
Il linguaggio comune ci viene in aiuto per comprendere la natura dei fenomeni attinenti la maternità, la paternità, l’essere fratelli e la comparsa di una nuova vita, fenomeni che, penso siamo tutti d’accordo, non sono riconducibili ad una realtà puramente biologica.
Si dice che la madre “aspetta un bambino”, ed anche il padre, e i loro figli “aspettano un fratellino”, i nonni aspettano un nipotino: la dimensione dell’attesa è ineliminabile fin dal momento in cui è appresa la notizia di una nuova vita in arrivo, e l’attesa umana tende per sua natura ad un compimento.
Venire alla luce o dare alla luce sono espressioni che trasmettono il significato positivo della vita, ed esso viene documentato dalla gioia, o quantomeno dallo stupore che, almeno per un attimo, colgono persino i più scettici di fronte all’evento della nascita.
Ma che cosa succede quando la vita appena nata incontra la contraddizione della malattia e della morte? Quale sfida e quali domande la malattia e la morte di un bambino suscitano a livello non solo clinico, ma umano e personale? Che senso ha prolungare queste vite in condizioni così precarie?
Una risposta positiva proviene dalla considerazione che permettendo a questi neonati di venire alla luce, i genitori ed i fratelli hanno in primo luogo la possibilità di vedere il compimento di quell’attesa a cui accennavo poco fa e di condividere anche solo poche ore o giorni della loro fragile vita; in secondo luogo, proprio grazie a questo, i familiari potranno in seguito elaborare con maggiore serenità il lutto per la loro perdita, specialmente se ad essa siano già stati precedentemente preparati attraverso un opportuno lavoro.
Per la famiglia, ma anche per tutti coloro che con la malattia e la morte premature vengono a contatto, si rende infatti necessario un processo mentale profondo, lungo e doloroso, noto come “elaborazione del lutto”; nel caso particolare dei genitori, questo processo è dapprima necessario per guarire la “ferita narcisistica”, ossia il senso di vergogna e di colpa per non aver saputo generare un figlio sano; quando poi la malattia conduce alla morte, un ulteriore lavoro di elaborazione è indispensabile per accettare tale esito, sebbene in realtà un’accettazione completa non sia probabilmente raggiungibile.
Nei casi di cui abbiamo sentito parlare oggi, questo processo di elaborazione è reso particolarmente difficile dalla brevità del tempo che intercorre tra l’annuncio della nuova vita e quello della malattia, e poi tra la nascita e la morte, e inoltre dalla complessità delle emozioni che ciascuno di questi eventi suscita.
Perciò è molto importante che i genitori e la famiglia in generale vengano aiutati non solo da coloro che li circondano (parenti, amici, comunità di appartenenza), ma anche da tutto il personale sanitario che li assiste, attraverso il modo di prestare la cura; la presenza di uno psicoterapeuta nel gruppo di lavoro può essere molto utile, non tanto o non solo perché è l’“esperto” della sofferenza psichica (sarebbe infatti riduttivo e persino un po’ grottesco “medicalizzare” a tutti i costi la sofferenza), ma perché una simile figura professionale, a differenza degli altri operatori, non è direttamente impegnata sul fronte medico o assistenziale e può pertanto farsi carico in modo privilegiato della sofferenza psichica che colpisce il bambino e la sua famiglia.
In letteratura è descritto come la tristezza di una madre che ha perso un bambino possa influire sulla sua capacità di intraprendere una relazione con il nuovo neonato o possa mettere in ombra la relazione con i figli viventi (v. ad esempio J. Goldsmith e H. Cohen; “L’eredità della perdita” Journal of Child Psychology 2011) .
Anche nella mia esperienza clinica di psicoterapeuta dell’età evolutiva mi è capitato più di una volta di osservare come il lutto per un pregresso aborto o per la 20 morte di un bambino, persino se avvenuti nelle generazione precedenti a quella osservata, attraverso meccanismi in gran parte inconsci, abbia avuto ripercussioni traumatiche su singoli individui o sulle relazioni tra i genitori, o tra i genitori e gli altri figli.
Penso che il potenziale traumatogeno di questi gravi eventi debba essere tenuto nella giusta considerazione nella cura delle malattie gravi o inguaribili di un bambino, per prevenire un futuro disagio negli individui più fragili e nella famiglia nel suo insieme, intesa come sistema di relazioni.
Anche il personale sanitario è esposto a tali rischi, in quanto continuamente a contatto con realtà dolorosissime come la malattia grave e la morte di un bambino, e lo strazio dei suoi familiari; spesso il bambino gravemente ammalato intuisce che la morte è imminente, ma non può parlarne con i genitori, che sono a loro volta affranti dal dolore, ed ha bisogno di trovare un interlocutore che possa dar ascolto ai suoi interrogativi angosciosi o semplicemente capire e sopportare la sua sofferenza (V. “Il lavoro psicoterapeutico con i bambini malati di tumore di M.G. Adamo e R. De Falco).
Non sempre le difese mentali degli operatori sanitari, pure inevitabili e, se non eccessivamente rigide, funzionali allo svolgimento della loro attività , sono in grado di reggere ed il loro fallimento rischia di portare il singolo o l’intera equipe ad un’impasse, fino alla conseguenza estrema di smarrire il significato stesso del proprio lavoro.
* Medico psicoterapeuta dell’età evolutiva diplomata presso il Centro Studi Martha Harris-Firenze
corsi modello Tavistock
Libera professionista, Genova
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