Oggi molti parlano di ri-pensare il welfare, ma non sempre queste proposte riescono a ridurre le crescenti disuguaglianze delle condizioni di vita. Con il crollo del welfare state si sta facendo avanti un welfare delle opportunità e non un welfare civile attento alle differenze e alle cause strutturali che fanno crescere le diseguaglianze.
Procediamo con ordine: il primo grande problema da affrontare riguarda le scelte politiche che negli ultimi venti anni hanno fatto crescere le diseguaglianze in maniera geometrica.
Quindi il primo problema riguarda la progettualità della polis: quale società si vuole per il prossimo futuro, che inverta la crescita delle diseguaglianze?
Uno dei temi più frequenti sul nuovo welfare pone al centro donne single con bambini e famiglie povere. Come anche il recente discorso del neo-presidente Letta alle Camere oppure alla prospettiva cosiddetta del social investment state [1].
Secondo questa visione, il nuovo welfare dovrebbe caratterizzarsi come welfare delle opportunità, in questo modo i più deboli ed esclusi sarebbero esattamente i grandi dimenticati dalle politiche sociali.
Per dare vita ad un welfare civilizzante e sussidiario a partire dalle donne single con bambini e famiglie (poveri) è fondamentale porre al centro del dibattito politico il diritto al lavoro per donne, oggi oberate dalle responsabilità di cura, e il diritto per minori di formazione e perseguire il proprio piano di vita a prescindere dai condizionamenti da un welfare delle opportunità fondato sulla lotteria sociale.
Nel 2011 (quindi dati per difetto rispetto alla situazione attuale), il tasso di occupazione delle donne italiane era pari al 46,5% contro una media Eu-27 del 58,5% (in Danimarca, Francia, Germania, Svezia e Gran Bretagna, i valori erano rispettivamente 70%, 59,7%, 67,7%, 71,8% e 64, 5%) (Fonte Ocse 2011).
La discriminazione verso le donne in Italia vale anche rispetto gli uomini. Una lettura superficiale dei dati fa emergere un differenziale di occupazione delle donne rispetto agli uomini di “soli” 2,5 punti percentuali. Purtroppo il dato non tiene conto della condizione delle donne: la stragrande maggioranza dei non occupati disponibili a lavorare è, infatti, costituita da donne (anche 2/3 dei sotto-occupati part time è formata da donne) [2].
Allo stesso tempo, sempre nel 2011, il tasso di povertà o esclusione sociale dei minori era pari a 32% (5 punti superiore alla media europea, circa 13 punti superiore al dato di Germania e Francia e ben 16 punti superiore al dato danese). Purtroppo questa dinamica non è congiunturale, ma strutturale; lo dimostrano gli studi sull’anaelasticità intergenerazionale dei redditi che supera, in Italia, il 50%.
Ossia, un figlio su due si colloca nella medesima classe di reddito del padre. Se da un lato ad esser maggiormente penalizzati dalla povertà sono i minori con almeno due fratelli e i figli di genitori single (i rischi di povertà/esclusione sociale per le coppie con tre o più figli minori e per le famiglie monoparentali si aggirano attorno rispettivamente al 46% e al 50%), altrettanto male vivono i figli minori unici di famiglie tradizionali.
Difatti al contrario di quanto si possa credere, in questo gruppo, è aumentato il rischio di povertà nel 2011 (salito al 29%). Ri-pensare quindi il welfare in senso civile sussidiario non è più rimandabilie.
Peraltro, contro la logica dei trade off, l’uguaglianza di opportunità per donne e bambini avrebbe vantaggi sia sul benessere sia dal punto di economico, migliorando la qualità della vita, l’occupazione e il capitale umano.
L’aumento dell’occupazione delle donne oltre all’aumento del PIL del paese, limiterebbe la povertà dei figli, delle donne che vivano in coppia, e di quelle che vivono da sole, attivando un circolo virtuoso, di un’ulteriore domanda di lavoro.
Le modalità attraverso cui realizzare il ri-pensare del welfare tuttavia è fondamentale.
Difatti, le proposte di chi avanza l’idea di un welfare delle opportunità per donne e bambini (ad esempio: sostegno alle responsabilità di cura, un reddito minimo di inserimento per le famiglie con minori, partendo dalle famiglie numerose) non è sufficiente.
Queste scelte infatti, in assenza di politiche inclusive e di sviluppo delle capacitazioni [3], potrebbero implicare cambiamenti ulteriori che appaiono ben più problematici.
Un primo rischio riguarda la rimozione, dall’agenda politica, del tema della disuguaglianza di condizioni nonostante quest’ultima sia una delle cause principali della disuguaglianza stessa di opportunità. Basti leggere gli studi sociologici ed economici che segnalano i grandi divari territoriali esistenti nel nostro paese.
A fronte di un tasso di occupazione femminile del 60% al Nord, al Sud il valore si arresta attorno al 33%: il divario è di 27 punti. Stesso discorso vale per il rischio di povertà per coppie con almeno tre figli minori che al Nord è 12,4%, mentre al Sud è al 50,6%. Il divario supera i 37 punti.
In presenza di queste diseguaglianze e divari, appare difficile garantire uguaglianza a donne, bambini e famiglie, senza investire nella creazione di una maggiore uguaglianza nelle condizioni sociali, culturali, sanitarie, economiche. Un welfare civile richiede, oltre a sostegno alla cura, al reddito minimo, all’istruzione, una seria politica di sviluppo del Mezzogiorno.
Ad aggravare la situazione c’è poi la questione dei figli dei migranti: più della metà è povero e questo richiede esigenti politiche di integrazione. Ancora, a prescindere dalle diseguaglianze territoriali, le evidenze scientifiche, sono concordi nel rimarcare una forte correlazione fra mancanza di ascensore sociale e diseguaglianza intergenerazionale.
Da un lato più aumentano le disuguaglianze economiche, sociali, culturali e via dicendo, più aumentano anche le distanze da colmare. Dall’altro lato, istruzione e reddito minimo non sono sufficienti per attivare la leva delle opportunità dei minori. Tuttavia, è importante, ad esempio, crescere e vivere in quartieri dove esiste capitale civile, connessioni sociali sviluppate, bassa volatilità dei redditi familiari, accesso al diritto della salute, ad un ambiente ecologicamente sano ecc.
Un welfare per le donne con bambini e famiglie povere potrebbe, ad esempio, rafforzare una concezione della cura come attività specificamente femminile. La cultura del “I care” (don Lorenzo Milani) e i suoi benefici sono noti a tutti e le donne sanno molto di cura, ma relegare loro solo questo ruolo può essere discriminante.
Un welfare delle opportunità costruito in questo modo, espone, altresì, al problema degli “esuberi umani” o “vite da scarto” (Zygmunt Bauman): gli “esuberi umani” appartengono ad un gruppo sociale di senza diritti.
In conclusione, la via per uscire da questa struttura che alimenta le diseguaglianze economiche, sociali, culturali (cfr nota 3) è un un ri-pensamento del welfare in senso civile partendo dalle famiglie, donne single con bambini, nella prospettiva di un accentuato investimento nella riduzione delle più complessive disuguaglianze delle condizioni di vita e di un welfare attento alle differenze.
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NOTE
[1] Cfr. anche Maurizio Ferrera, Il Corriere della Sera, 30 aprile 2012.
[2] Cfr. Villa, www.ingenere.it n.83.
[3]Amartya Sen, premio nobel per l’economia 1988. Per Sen per capacitazione s’intende la capacità personale di sviluppare l’uomo nella sua integralità