Durante l’udienza di quel fatale 13 maggio 1981, Giovanni Paolo II avrebbe dovuto pronunciare una catechesi, in cui, parlando di Maria, affermava: “Essa conobbe la gioia più intima e profonda congiunta alla tristezza e alla prova più terribile. Così succede ad ognuno di noi; e la gioia si alterna al dolore, mescolando nella nostra vita alle rose le spine”.
Pensai quel giorno che anche nella mia vita fosse arrivato il momento del dolore e della prova terribile: avevo lasciato il mio Paese, la mia famiglia, la mia carriera professionale per venire nella Roma di Giovanni Paolo II a dare il mio piccolissimo contributo a questo “pontificato polacco”, ma in quel momento mi sembrò tutto finito.
Mi spostai alla Casa per i Pellegrini Polacchi a due passi da San Pietro, in via Pfeiffer. Strada facendo feci un salto in Sala Stampa vaticana, già gremita di giornalisti. Tutti erano molto preoccupati, anche perché inizialmente padre Panciroli, responsabile della Sala Stampa, aveva parlato della possibilità della perforazione del pancreas del Santo Padre. Alla Casa Polacca mi misi davanti alla televisione che trasmetteva la diretta dal Policlinico Gemelli.
Dalla TV appresi che l’ambulanza arrivò all’ospedale in tempo record, perciò l’operazione cominciò già alle ore 17.55. Le condizioni del Pontefice erano disperate, perciò don Stanislao impartì al Papa l’assoluzione e l’unzione degli infermi. L’equipe che cominciò ad operare fu guidata del professor Francesco Crucitti, uno dei primari di chirurgia, in assenza di un altro illustre chirurgo del Gemelli, prof. Castiglioni, ad un congresso a Milano.
Alle 18.48 venne diffuso il primo comunicato: nessuno degli organi vitali era stato compromesso. Un bagliore di speranza. Andai di nuovo sulla piazza dove la notizia era stata diffusa tra i fedeli in preghiera. Qualcuno sulla transenna dove fu perpetrato l’attentato mise la foto di Giovanni Paolo II e delle rose. La gente continuava a pregare. Dopo appresi che quella notte tante chiese in Italia rimasero aperte per dare alla gente la possibilità di pregare per il Papa.
Alle 20.10 arrivò un’altra notizia: tutto procede bene. Alle 20.50 si diffuse poi l’informazione della fine dell’operazione, ma non era vero. Le false notizie di questo tipo si ripeterono più volte quella notte, ma il vero comunicato arrivò alle 23.30: il prof. Castiglioni, che nel frattempo era riuscito a tornare a Roma, informò i giornalisti che l’operazione aveva avuto un esito positivo, aggiungendo: “Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Adesso bisogna aspettare”. Tuttavia la prognosi rimase riservata. Fu una lunga notte d’attesa segnata dalla preghiera e dalle riflessioni.
Non osavo sperare ma il fatto che il Santo Padre fosse riuscito a sopravvivere ad un intervento complicatissimo durato più di 5 ore fu già un segno positivo. Passarono così quattro giorni di attesa; il quinto, domenica del 17 maggio, ero di nuovo sulla piazza per sentire la preghiera “Regina Coeli” pronunciata dal Santo Padre dal letto del Policlinico.
Piansi sentendo la voce debole e ansimante del Papa: “So che in questi giorni e specialmente in quest’ora del Regina Coeli siete uniti con me. Vi ringrazio commosso per le vostre preghiere e tutti vi benedico. Prego per il fratello che mi ha colpito, al quale ho sinceramente perdonato. Unito a Cristo, Sacerdote e Vittima, offro le mie sofferenze per la Chiesa e per il mondo. A Te Maria ripeto: Totus tuus ego sum”. Mi sembrò che la giornata del 13 maggio finisse in quel momento, a mezzogiorno del 17 maggio, quando Giovanni Paolo II tornò di nuovo – anche se soltanto via radio – sulla “sua” piazza.
Nel frattempo nei media e tra la gente infuriava la polemica circa l’attentatore e i suoi mandanti. Quando un giorno chiesi al card. Andrzej Maria Deskur, amico fraterno di Giovanni Paolo II, cosa pensasse di questa faccenda mi rispose: “Sai che il 12 maggio sera il Papa, come tutti i sacerdoti, durante la preghiera serale leggeva il passaggio dalla Lettera di san Paolo: ‘Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare’. Allora è ovvio che è stato il diavolo che voleva ‘divorare’ Giovanni Paolo II, ma per me è del tutto indifferente quale ‘mano’ abbia usato”.
Il diavolo usò la mano di Ali Agca, ma ci fu un’altra mano che deviò il proiettile: la mano della Madonna. Ne era convinto Giovanni Paolo II che durante il suo secondo soggiorno al Policlinico Gemelli, nel mese di luglio, si fece portare la busta con il testo originale del “terzo segreto” di Fatima scritto da suor Lucia, perché si rese conto che il giorno in cui avevano tentato di ucciderlo era l’anniversario della prima apparizione della Vergine. Da quel giorno il Papa, parlando dell’attentato disse sempre: “Una mano ha sparato e un’altra ha guidato la pallottola”. Oggi quella pallottola che avrebbe dovuto cambiare la storia della Chiesa e del mondo si trova a Fatima incastonata nella corona della statua della Madonna.
[La prima parte è stata pubblicata ieri lunedì 13 maggio 2013]