Il pomeriggio del 13 maggio 1981 avevo accompagnato i miei amici Polacchi a piazza San Pietro per l’udienza generale del mercoledì, ma non rimasi tra la gente: stetti all’ombra, sotto il colonnato di sinistra, per godermi lo spettacolo della piazza gremita da gente festosa che aspettava Giovanni Paolo II. Per il Papa fu una giornata intensa: quel giorno istituì il Pontificio Istituto per studi su matrimonio e famiglia e ricevette in udienza privata il famosissimo genetista francese Jérôme Lejeune con la moglie con cui si trattenne amichevolmente a pranzo. Alle 17,00 dall’Arco delle Campane, sotto la facciata della Basilica di San Pietro, sbucò la jeep bianca del Papa e cominciò a girare la piazza.
Il Pontefice si spostava lentamente tra la foresta delle braccia alzate dei fedeli armate di bandierine, fazzoletti e macchine fotografiche. Ad un certo punto Giovanni Paolo II prese in braccio un bambina con un palloncino: la baciò e la ridiede ai genitori. In quel momento successe una cosa strana: tutte le colombe che stazionavano sulla piazza si sono alzate in volo; subito dopo ho visto uno scompiglio intorno alla macchina del Papa che ha girato e ha cominciato a tornare indietro verso l’Arco delle Campane.
Cosa stava succedendo in quei momenti vicino al Papa l’ho saputo anni più tardi da una suora italiana, Letizia Giudici, che è passata alla storia come “la suora che ha fermato Ali Agca”. Questa francescana dell’ordine di Nostra Signora del Monte nel 1981 aveva 30 anni e studiava al Pontificio Ateneo Antonianum di Roma. Il 13 maggio era andata all’udienza generale. Quando la papamobile si avvicinò al luogo dove era suor Letizia, tanta gente alzò le mani sopra la testa per scattare delle foto, perciò la suora non si meravigliò che anche un giovane vicino a lei alzasse il braccio: pensava che volesse fotografare il Papa, ma quando sentì gli spari, capì che nella sua mano aveva una pistola.
Subito dopo aver sparato, Ali Agca si mise a correre. Nessuno si mosse per fermare l’attentatore: tutti avevano gli occhi fissi sulla macchina con il Papa ferito. Allora istintivamente, suor Letizia cominciò a correre dietro Agca. Il turco probabilmente inciampò su un sampietrino e cadde. Allora la suora gli saltò addosso, bloccandolo. L’attentatore puntò contro di lei la pistola che teneva ancora in mano, ma l’arma – stranamente, o piuttosto miracolosamente – s’inceppò e Agca la buttò via.
Grazie alla tempestiva azione della religiosa, i poliziotti italiani riuscirono subito ad arrestare il turco. Durante il processo Ali Agca non ricordava la suora, ma si meravigliò che quella che lo aveva bloccato si chiamasse Lucia (questo è il nome di battesimo di suor Letizia). “Che strano che questa suora si chiama Lucia. C’è una altra suor Lucia” ripeteva, alludendo alla veggente di Fatima.
Mentre gli agenti accompagnavano l’attentatore all’Ispettorato della Polizia Italiana presso il Vaticano, la jeep bianca corse dietro la Basilica verso l’edificio dei Servizi Sanitari. Nel suo libro-testimonianza La mia vita con Karol, don Stanislaw Dziwisz, il segretario privato del Papa, così descrive quelli momenti tremendi: «Il Santo Padre ha preso ad afflosciarsi su un fianco, addosso a me. Aveva una smorfia di dolore, eppure era sereno. Gli ho chiesto: Dove?. Ha risposto: Al ventre. Fa male? E lui: Fa male. La prima pallottola aveva devastato il suo addome, perforando il colon, lacerando in più punti l’intestino tenue, e poi era uscita cadendo lì nella jeep. La seconda pallottola, dopo aver sfiorato il gomito destro e fratturato l’indice della mano sinistra, aveva ferito due turiste americane».
«Qualcuno ha urlato di dirigersi verso l’ambulanza – prosegue Dziwisz – Ma l’ambulanza si trovava dall’altra parte del Vaticano. La jeep ha attraversato velocemente l’Arco delle Campane, ha percorso via delle Fondamenta girando all’esterno tutto attorno all’abside della basilica, poi giù per il ‘Grottone’, il cortile del Belvedere, e finalmente la direzione del FAS, i servizi sanitari del Vaticano, dove c’era, avvertito nel frattempo, il dottor Renato Buzzonetti, medico personale del Santo Padre. Mi hanno preso il Papa dalle mani, lo hanno sdraiato per terra, nell’androne dell’edificio, e solo in quel momento ci siamo accorti del gran sangue che sgorgava dalla ferita provocata dal proiettile uscito dietro. Buzzonetti gli ha piegato le gambe chiedendogli se riuscisse a muoverle, e lui le ha mosse. Immediatamente dopo, il medico ha gridato di andare al Gemelli. Non si trattava di una scelta a caso ma decisa da tempo, qualora ci fosse stata necessità di ricoverare il Santo Padre. L’ambulanza, che era intanto arrivata, è partita a tutta velocità, e così è cominciata quella disperata corsa contro il tempo, su per via Aurelia, per la Pineta Sacchetti. La sirena non funzionava bene, c’era traffico, e l’autista spingeva ininterrottamente sul clacson».
I fedeli radunati sulla piazza non sapevano esattamente cosa fosse successo in piazza San Pietro. Di bocca in bocca correva la voce tremenda: “Attentato! Attentato!”. La gente pianse, si disperò, o rimase ammutolita. Si vedevano le persone inginocchiate in preghiera, perché in tanti credevano che il Papa fosse morto. Ma non c’era né panico né confusione. Tutti gli organizzatori dell’udienza e i vigilanti vaticani sparirono, perciò la gente non otteneva nessuna notizia. Fortunatamente in quei momenti drammatici, sulla piazza si trovava padre Casimiro Przydatek, responsabile del Centro per i Pellegrini Polacchi, che si avvicinò al microfono e cominciò la preghiera del rosario: la gente pregò e cantò. Qualcuno dei presenti aveva portato dalla Polonia in dono per Giovanni Paolo II una copia dell’icona della Madonna di Czestochowa. Padre Casimiro la prese e la poggiò sulla poltrona vuota del Papa. Intanto, intorno alla piazza regnava il caos: si sentivano i fischietti dei poliziotti, le sirene delle ambulanze e delle gazzelle della polizia, lo sgommare delle macchine.
[La seconda parte verrà pubblicata domani martedì 14 maggio 2013]