Nel nome di Francesco. Basterebbe questo per spiegare questa nuova fase della Chiesa. Se è vero, come dicevano i Romani, che nel nome c’è un augurio, il nome Francesco è quello che la Chiesa ha scelto per affrontare i mali del nostro tempo. E non ci potrebbe essere niente di più storico e rivoluzionario di questo. Ha lasciato il mondo pieno di stupore l’annuncio del “qui sibi nomen imposuit” che riporta Francesco nella stessa piazza dove, nel lontano 1209, si rotolava nel fango, tra i maiali, per mostrare la sua obbedienza all’allora Papa Innocenzo III. Che ne restò profondamente colpito, come lo siamo noi oggi.
Sono tante le prospettive che questo pontificato sta aprendo e ci vorranno molti mesi, e molto impegno e attenzione, per capire come ciascun credente e uomo di buona volontà potrà partecipare attivamente alle sfide della Chiesa futura.
La sfida essenziale sarà incarnare il Vangelo e il suo messaggio nella vita di tutti i giorni: sociale, politica, economica. È la stessa sfida che Francesco scoprì quando lesse un passo del Vangelo nella Chiesa di San Nicola, ad Assisi. Era il 24 febbraio del 1208. Tommaso da Celano ci racconta che, ascoltato un passo del Vangelo di Matteo, Francesco decise che era arrivato il momento di completare la sua conversione e uscire per le strade del mondo.
È quello che la DSC deve fare oggi, per non restare chiusa nelle aule delle università, o sui tavoli degli addetti ai lavori. Proprio Francesco ci dà gli spunti per una Dottrina Sociale attenta agli ultimi, che non è spaventata da un mondo che sembra lebbroso e ostile, ma lo abbraccia, lo stringe, per fargli sentire la presenza di Cristo. Che non teme di parlare e praticare l’economia, di affrontare la materialità della vita, di sporcarsi le mani con il marcio da cui siamo circondati.
Francesco d’Assisi non voleva semplicemente riformare la Chiesa, ma convertire il mondo con il Vangelo, cercando tutti gli strumenti più adatti. Non può essere un caso che dal movimento francescano siano nate le prime istituzioni “bancarie”, i primi modelli di mutuo soccorso e cooperazione. È per combattere la povertà che nascono i primi monti di pietà, gli originari modelli di piccola impresa familiare, con i francescani in prima linea a lavorare e raccogliere una quota di capitale da destinare al prestito per i poveri che ne facessero richiesta. Tutto il contrario della semplice condivisione dei beni materiali che non crea nuova ricchezza e non sa allocare le risorse scarse, come si fa invece “sporcandosi” con l’ economia. In Francesco i beni non sono delegittimati e messi al bando.
Su questo esempio si può allora affermare, senza tema di smentita, che la “Chiesa di Papa Francesco” non sarà un elogio del pauperismo, come qualcuno maliziosamente auspica. La differenza tra pauperismo e povertà dovrebbe essere nota. Ma se non lo è, basterebbe ricordare che la povertà di Francesco era una povertà scelta volontariamente: una scelta coraggiosa nata per rendere meno sofferente la povertà altrui, subita, ovviamente involontariamente, da tantissime persone che Francesco il mendicante incontrava sulla sua strada.
Francesco si è sempre rifiutato di proporre una chiesa “dei puri” a opporre alla chiesa del potere. Come fu necessario fare allora, anche oggi bisogna stare in guardia dalle semplificazioni “eretiche” dell’impegno della Chiesa nel mondo. Il messaggio di Francesco ha saputo distinguersi dalle eresie dei catari, che proponevano nel dualismo Bene/Male una suddivisione aut-aut del mondo e delle persone che lo abitavano. Francesco non è il modello dell’aut-aut. Ma il modello dell’et-et. Francesco non è l’inquieto Lutero riformista, ma il riformatore gioioso e pacifico.
Lo ricorda Bernanos, in un suo indimenticabile brano: “Non si riforma la Chiesa se non soffrendo per essa; non si riforma la Chiesa visibile se non soffrendo per la Chiesa invisibile. Non si riformano i vizi della Chiesa se non prodigando l’esempio delle sue virtù più eroiche. È possibile che Francesco d’Assisi fosse non meno contrariato di Lutero per la corruzione e la simonia dei prelati. Ma non ha sfidato l’iniquità; non ha tentato di opporsi. Francesco si è gettato nella povertà per quanto gli era possibile, come nella sorgente di ogni remissione, di ogni purezza.”.
Papa Francesco, appena eletto, ha subito chiesto di pregare per lui, di affrontare questo viaggio insieme. Ma non sarà facile. Per “riparare” la Chiesa, e il mondo, assieme al nuovo Papa, così come faceva Francesco d’Assisi, ciascuno di noi dovrebbe ripetere ogni giorno questa sua semplice frase: “Dio, dammi la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di accettare quelle che non posso cambiare, e di sapere distinguere le une dalle altre.”.
È questo l’augurio per un pontificato “di tutti e per tutti” che, già nel nome, lascia un profondo segno di speranza nella storia dell’uomo.
Per ogni approfondimento “La Società” n. 2 / 2013
* Claudio Gentili è direttore de “La Società”, rivista della Fondazione “Giuseppe Toniolo”