"Lingue come di fuoco" (Seconda parte)

Relazione del cardinale Albert Vanhoye, S.J., al recente Convegno sullo Spirito Santo

Share this Entry

ROMA, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la seconda parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso dal cardinale Albert Vanhoye, S.J., al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.

***

Torniamo all’espressione “lingue come di fuoco” per parlare del rapporto del fuoco con Dio, secondo la Bibbia. Abbiamo già citato il testo dell’Esodo in cui Dio si rivela nel roveto ardente (Es 3,2-6) a Mosè che era allora “nel territorio di Madian” (Es 2,25). Mosè tornò in Egitto per riempire la sua missione e guidare il popolo fuori dell’Egitto. Dopo la partenza, il racconto riferisce che “il Signore marciava alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte, in una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,21). La colonna di nube non ha niente di straordinario; invece la colonna di fuoco è straordinaria e manifesta la potenza di Dio. Tuttavia, il fatto che Dio si serve dell’una e dell’altra indica che non c’era un’unione permanente di Dio con il fuoco. La prospettiva era utilitaria, non era di rivelazione. Si trattava di “far loro luce”.

Invece nella teofania del Sinai, si tratta di rivelazione. In Es 19,18 leggiamo: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace.” C’era un’unione tra il Signore e il fuoco.

Il testo di Es 24,17 dice di più; dichiara: “La gloria del Signore, appariva  agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna”. Altri testi sono ancora più espliciti, dicono: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore” (Dt 4,24). L’idea espressa non è di amore, ma di minaccia, di pericolo. “Chi di noi, dice Isaia, può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?” (Is 33,14). La minaccia può avere un aspetto positivo, perché può rivolgersi contro i nemici di Israele. È il caso in Dt 9,3: “Ascolta, Israele, tu stai per andare a conquistare popoli più grandi e più potenti di te […] Sappi dunque che il Signore, tuo Dio, passerà davanti a te come fuoco divoratore, li distruggerà e li abbatterà davanti a te.” Ma più spesso la minaccia prende di mira gli Israeliti e viene attuata. Nel suo capitolo 11, il Libro dei Numeri riferisce che “il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signore. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’estremità dell’accampamento” (Nm 11,1).

Nondimeno, è possibile scoprire nei testi di minaccia qualche traccia di amore, perché parlano di gelosia divina. I testi vietano l’idolatria, perché essa è una violazione del legame di amore esclusivo che unisce Israele a Dio. Per appoggiare il primo comandamento del Decalogo, che vieta l’idolatria, Dio stesso dice: “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa […] per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es 20,5-6; Dt 5,9-10). La bontà di Dio è immensa. La reazione di Dio contro gli Israeliti peccatori è una reazione di amore deluso. Similmente nel Deuteronomio, dopo aver ricordato il primo comandamento, Mosè dice al popolo: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore, un Dio geloso” (Dt 4,24).

In modo analogo, è possibile mettere la rivelazione del roveto ardente in rapporto con il tema dell’amore. Di per sé, questa rivelazione di un roveto che arde e non si consuma esprime soltanto l’eternità di Dio, al quale un salmo dice: “Si logorano tutti come un vestito, […] ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine” (Sal 101/102,27-28). Nel contesto, però, Dio si rivela anche pieno di amore per il suo popolo. Egli dichiara: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido, […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…” (Es 3,7.8). Tuttavia, non si può dire che il racconto operi la fusione tra questi due aspetti, eternità divina e atteggiamento di amore. Sono nettamente distinti.

Soltanto nel Nuovo Testamento, Dio viene definito “amore”. S. Giovanni proclama che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16); diventa allora possibile dire che Dio è “amore che arde e non si consuma”.

L’espressione “lingue come di fuoco” non esprime direttamente questo concetto, ma il contesto successivo, il quale rivela gli effetti prodotti dalle “lingue come di fuoco”, parla implicitamente in questo senso, perché dichiara che le persone sulle quali si erano posate queste “lingue come di fuoco” si sono messe a “parlare delle grandi opere di Dio” (At 2,11); manifestavano così, con amore riconoscente, l’amore generoso di Dio. D’altra parte, il discorso di Pietro è stato una manifestazione di grande zelo apostolico. Ispirato dallo Spirito Santo, lo zelo apostolico ha la sua origine nell’amore di Dio per gli uomini ed è una manifestazione dell’amore dell’apostolo per gli uomini. L’apostolo, cioè, accoglie nel proprio cuore e nella propria attività la corrente di amore che viene da Dio in vista della salvezza degli uomini. In fin dei conti, vediamo che l’espressione “lingue come di fuoco” sta in rapporto abbastanza stretto con il tema dell’amore. L’aspetto di minaccia che il fuoco ha in altri testi è qui completamente assente.

Tra lo Spirito Santo e l’amore la relazione è affermata fortemente dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani. San Paolo dichiara che “l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci  è stato dato” (Rm 5,5). Nella Lettera ai Galati, il primo aspetto del “frutto dello Spirito” secondo san Paolo è “l’amore” (Gal 5,22). Questo passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito Santo e la vita in Cristo.

Quando san Paolo parla della vita nuova dei cristiani nella Lettera ai Romani, egli non accenna al ruolo dello Spirito Santo, ma parla unicamente di unione al mistero pasquale di Cristo. Egli scrive: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una novità di vita” (Rm 6,4). Come vedete, san Paolo parla di unione alla morte di Cristo e alla sua risurrezione, ma non parla del dono dello Spirito Santo, benché questo dono sia indispensabile perché i cristiani siano in grado di “camminare in una novità di vita”. Il rapporto con lo Spirito, san Paolo lo suggerisce più avanti quando parla di “una novità di spirito”. Per poter camminare “in una novità di vita”, è necessario accogliere la “novità dello spirito”, la quale libera dalla “vecchiaia della lettera”, libera cioè dal sistema della Legge (Rm 7,6). Il rapporto con lo Spirito viene poi espresso molto chiaramente nella Lettera a Tito, che dice: Dio “ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, che ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (Tt 3,4-6). Questo testo è molto bello; comincia con un accenno alla dottrina paolina della giustificazione “non per opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia” di Dio, la sua grazia. Poi viene un accenno al battesimo, chiamato “lavacro di rigenerazione di rinnovamento nello Spirito Santo”, il che significa che, per mezzo del battesimo, lo Spirito Santo introduce le persone in una vita nuova; esse sono generate una seconda volta, “da acqua e Spirito”, come Gesù diceva a Nicodemo (Gv 3,5), e sono ra
dicalmente rinnovate. San Paolo sottolinea poi, in modo molto bello, l’abbondanza dell’effusione dello Spirito.

Come ho detto, un passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito e la vita in Cristo. Questo passo non parla di novità, ma è parallelo ai passi della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, che mettono in contrasto l’uomo nuovo e l’uomo vecchio.

La Lettera agli Efesini invita i cristiani “ad abbandonare…l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli… e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,22.24). Poi c’è tutto un elenco di difetti da evitare e alcuni consigli positivi molto importanti. Nel passo di Ef 4,22-24 lo Spirito non è nominato; però, nel capitolo precedente, san Paolo dice che prega perché Dio conceda ai cristiani “di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (Ef 3,16). Il passo di Ef 4,22-24 va quindi completato con questo passo precedente.

Nella Lettera ai Colossesi, san Paolo parla similmente dell’uomo vecchio e dell’uomo nuovo; scrive: “vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo ha creato” (Col 3,9-10). San Paolo fa un elenco di difetti da evitare e dà molti consigli positivi, ma non parla dello Spirito Santo in proposito.

Quanto alla Lettera ai Galati, invece di parlare del contrasto tra l’uomo nuovo e l’uomo vecchio, essa parla di contrasto tra la carne e lo Spirito. Ai Galati san Paolo dice: “Camminate con lo Spirito e non ci sarà pericolo che portiate a compimento un desiderio della carne” (Gal 5,16). Poi san Paolo spiega: “La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne, queste cose si oppongono a vicenda, affinché non facciate tutto ciò che vorreste” (Gal 3,17). Chi segue la carne, non può nel contempo seguire lo Spirito, e viceversa.

San Paolo elenca poi, per la carne, una serie di “opere” cattive, cioè peccati in materia di sessualità, di culto, di relazioni tra le persone, di alimentazione. Per lo Spirito invece, san Paolo non parla di “opere”, ma di “frutto”, non al plurale di dispersione, ma al singolare di unità. La parole “frutto” esprime una fecondità profonda e non, come la parola “opere”, un’attività esterna. La fecondità implica un’unione vitale nell’amore. L’elenco che spiega il frutto dello Spirito non è semplicemente un elenco di virtù, opposte ai vizi della carne, ma, dopo “l’amore”, comprende anche la gioia e la pace, doni meravigliosi di Dio e segni della sua benedizione.

San Paolo conclude dicendo: “Se viviamo dello Spirito, con lo Spirito anche camminiamo” (Gal 5,25). Questa frase è molto significativa. Dimostra anzitutto che noi cristiani abbiamo ricevuto lo Spirito, il quale ci comunica una nuova vita, “viviamo dello Spirito”. Questo dono ci rende poi capaci di una condotta corrispondente, una condotta “con lo Spirito”. San Paolo ci invita a sfruttare attivamente questa capacità, camminando effettivamente con lo Spirito e accogliendo sempre nella nostra vita “il frutto dello Spirito.”

Con questa conclusione di san Paolo, concludo anch’io la mia modesta conferenza! Vi ringrazio per la vostra attenzione.

[La prima parte è stata pubblicata martedì 30 ottobre]

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione