di Marina Casini
ROMA, martedì, 30 ottobre 2012 (ZENIT.org).– Nel 1980 i CAV erano 53, oggi sono 329 distribuiti sull’intero territorio nazionale.
Dal 1975, i bambini nati grazie al sostegno dei CAV sono oltre 140mila, mentre le donne assistite (tra gestanti e non gestanti) hanno superato le 450mila.
Una goccia se pensiamo all’ecatombe degli aborti effettuati dal 1978 ad oggi, ma un risultato straordinario se pensiamo al fatto che l’effettiva opera di prevenzione dei CAV poggia più che sulle forze materiali, sulla capacità di esprimere un’intera comunità religiosa e civile di cui i CAV sono strumento e motore. I CAV rendono specifica la generale premura della sensibilità cristiana verso i soggetti poveri e deboli, soli, fragili, emarginati e minacciati. Se c’è di mezzo un essere umano, un bambino, la responsabilità di riconoscerne il valore è di tutta la società. La stessa efficacia dei CAV fu pensata dall’inizio in relazione alla possibilità di una rete di solidarietà di cui il CAV dovesse essere il punto di coagulo organizzativo dell’intero popolo della vita. A riguardo sono interessanti gli atti del Convegno CAV del 1984 dal tema «Volontariato per la vita: da una esperienza a una proposta per la società». «Se poche persone, con scarsi mezzi hanno potuto salvare […] bambini senza mai subire rimproveri successivi dalle mamme (anzi con ringraziamento), perché non considerare questa esperienza un modelloripetibile su più larga scala come esperienza che tutta la società deve seguire?» (Convegno CAV 1997 – “Le ragioni, i segni, le esigenze dell’accoglienza”).
Oggi dopo 37 anni di appassionato lavoro non vi sono dubbi sulla maturazione e l’approfondimento di questa esperienza, arricchita di specifici nuovi servizi.
«L’aiuto alla donna in gravidanza – si legge nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 16 dicembre 2005 (“Aiuto alla donna in gravidanza e depressione post-partum”) – esige […] profili di intervento diversi e complementari, che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche, sanitarie e sociali. La relegazione di una donna nella solitudine, sia essa materiale o morale, dinanzi all’impegno della maternità costituisce infatti violazione radicale della dignità umana della donna medesima e del figlio, e nel contempo rappresenta il fallimento dei vincoli solidaristici fondamentali per la convivenza civile». E non è anche per evitare questo fallimento che esistono i CAV?
Non è stato un lavoro animato da una speranza profetica?
La pace e la ferita dell’aborto
Vi sono altri profili per i quali i CAV possono definirsi “speranza profetica nella storia”. Traggo spunto da un passaggio del discorso di Benedetto XVI ai Membri del Governo, delle Istituzioni della Repubblica, del Corpo Diplomatico, ai Capi religiosi e ai Rappresentanti del mondo della cultura, in Libano il 15 settembre scorso: «Oggi le differenze culturali, sociali, religiose, devono approdare a un nuovo tipo di fraternità, dove, appunto, ciò che unisce è il senso comune della grandezza di ogni persona e il dono che essa è per se stessa, per gli altri e per l’umanità. Qui si trova la via della pace». Il legame tra fraternità, riconoscimento della grandezza dell’uomo sin dal concepimento e pace è da sempre all’attenzione della cultura della vita
Pace significa anche pace con se stessi, con il proprio bambino non nato «che ora vive nel Signore» come si legge nell’ “Evangelium Vitae” (n. 99) e con il Padre della Vita. Sto parlando di quella sofferenza interiore che non dà pace, vissuta in solitudine causata dall’aborto. Se nella società il figlio non nato è misconosciuto, è misconosciuta anche la ferita dell’aborto volontario. Eppure è un dolore, ormai documentato anche scientificamente, nascosto nelle pieghe della quotidianità, ma tanto presente da risvegliarsi puntualmente in modo acuto in alcune situazioni o da spingere a rivolgersi a un sacerdote o a uno psicoterapeuta. È significativo che Dacia Maraini, nota per le sue posizioni vetero-femministe, abbia scritto su Repubblica del 4 febbraio 2005: «l’aborto non è una bandiera, né un diritto, né una conquista. E’ una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro se stesse e il figlio che è stato concepito».
La c.c. “sindrome post-aborto” è una delle nuove povertà su cui i CAV da tempo si interrogano. Anche qui, è interessante rileggere gli atti del Convegno del 1987 in cui ad una Commissione di studio fu affidato il tema dell’assistenza alla donna che ha abortito.
Anche su questo fronte i CAV mostrano di essere luoghi di accoglienza. Si tratta, ovviamente, di una disponibilità verso la donna che non si colora in alcun modo di approvazione verso l’aborto compiuto. Anche su questo fronte c’è una sfida alla cultura della morte. Per rispondere a questa nuova emergenza a Roma, presso il CAV Palatino e presso un centro Caritas, è stato inaugurato “Da donna a donna”, uno sportello gratuito che vuole essere un servizio di recupero e consulenza psicologica per donne con difficoltà post aborto. Questo nuovo servizio è frutto del progetto “Futuro alla vita” realizzato dal MpV. È un’esperienza pilota che potrebbe essere esportata negli altri CAV diffusi sul territorio italiano.
Il fondamentale collegamento con il MpV
Non sarebbe comprensibile il lavoro dei CAV senza tenere conto di quello del MpV. La lettura del libro intervista di Renzo Agasso a Carlo Casini, “Sì alla vita. Storia e prospettive del Movimento per la vita” (San Paolo, 2011) è altamente istruttivo a riguardo. Non pochi Movimenti locali adempiono anche le funzioni dei CAV, ma soprattutto il MpV preparano il terreno per il sorgere, il crescere, il consolidarsi dei CAV. Si pensi al materiale diffuso (manifesti, dossier, filmati, libretti) utilizzato nell’opera di prevenzione. I concorsi europei, seminari, corsi di bioetica, i rapporti al Parlamento, le numerose pubblicazioni, il giornale Sì alla vita, e molte altre iniziative. Tutto questo ha creato l’humus culturale per la costituzione e la crescita dei CAV. È inseparabile la solidarietà concreta dalla presenza culturale, educativa, politica e legislativa. Gli stessi Convegni dei CAV, che dal 1981 ad oggi si sono svolti in vari luoghi d’Italia proprio per rendere visibili in molti luoghi la realtà dei CAV, hanno costituito e costituiscono tappe miliari in questo senso. Tavole rotonde e testimonianze hanno coinvolto politici, giornalisti, sindacalisti, vescovi, dirigenti di associazioni cattoliche, scienziati, rappresentanti di movimenti pro-life stranieri. Incontro di studio di problemi pratici organizzativi e assistenziali, strumento per scambiare esperienze, luoghi di diffusione della cultura della vita, essi hanno coinvolto in modi sempre più significativi espressioni di culture diverse in uno sforzo di dialogo che fa appello appassionato all’unità attorno al valore della vita ed hanno già da tempo iniziato ad avere significativi effetti sull’opinione pubblica.
CAV e MpV: due facce della stessa medaglia, perché si tratta di amare e servire la vita.
Una “speranza profetica” del popolo della vita è quella per cui verrà un tempo in cui l’aborto sarà considerato inaccettabile come la tortura, la pena di morte, la guerra come strumento per risolvere i problemi. Merito delle parole che fanno cultura – “la parola salva la vita”
, è stato detto tante volte -, ma soprattutto merito dell’amore presente nei CAV vissuto come segno di unità con la mamma e il bambino che porta in seno e come capacità di dialogo con tutti. Ma non si può pensare ad un efficace dialogo con gli altri, ad una credibile testimonianza, alla persuasività dell’impegno per la vita, se non c’è unità profonda nel popolo della vita. Non c’è forza persuasiva nell’amore verso il fratello non nato – che non si vede – se non c’è la tensione a sviluppare l’amore per il fratello che si vede (parafrasi di Giovanni, 1, 4-20; da: “Appello al popolo della vita” contenuto nel libro intervista di Renzo Agasso a Carlo Casini, “Sì alla Vita. Storia e prospettive del Movimento per la Vita”, San Paolo, 2011, pp. 185).
[La seconda parte è stata pubblicata lunedì 29 ottobre]