del Card. Laurent Monsengwo Pasinya
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 17 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’intervento di S. Em. R. Card. Laurent Monsengwo Pasinya, Arcivescovo di Kinshasa, alla tredicesima Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi (16 ottobre 2012).
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Nell’esperienza delle giovani Chiese africane, l’incontro con i missionari ci ha inseriti subito in un contesto interculturale, come ci ha ricordato Papa Benedetto XVI in occasione della sua visita in Benin nel novembre 2011. I primi evangelizzatori venivano infatti da fuori e avevano la loro cultura, una cultura diversa dalla nostra. Da qui il miracolo della polisemia del discorso missionario, opera dello Spirito Santo.
Lunghi dibattiti teologici hanno permesso di chiarire la nozione stessa di inculturazione. Ma se il termine è recente, la realtà è invece tanto antica quanto l’esperienza di Israele. Questo popolo, che ha beneficiato dell’esperienza della rivelazione, si è confrontato con la cultura ellenistica. Ha dovuto inventare un modo di “dare ragione della speranza di cui era portatore”. Anche gli Apostoli di Gesù e poi San Paolo si sono serviti della lingua greca per comunicare l’esperienza del mistero di Cristo.
Il Concilio Vaticano II ha confermato questa dinamica chiedendo che “nell’ambito di ogni vasto territorio socio-culturale, come comunemente si dice, venga promossa una ricerca teologica di tal natura per cui, alla luce della tradizione della Chiesa universale, siano riesaminati fatti e parole oggetto della Rivelazione divina, consegnati nella sacra Scrittura e spiegati dai Padri e dal magistero ecclesiastico.” (Ad Gentes, n. 22, cfr. Lumen Gentium, n. 23).
L’inculturazione è quel processo, mai concluso, di incarnazione della vita cristiana e del messaggio cristiano nelle culture. In questo modo, l’esperienza del mistero di Cristo, da un lato trova la sua espressione in noi e dall’altro diventa principio, criterio e potenza di ricreazione e di unificazione della vita personale e comunitaria (cfr. Evangelii Nuntiandi, n° 19).
L’evangelizzazione non è un atto compiuto una volte per tutte, bensì un dialogo permanente tra il messaggio evangelico e la cultura, che per sua natura è dinamica e instabile. Questa continua metamorfosi, segno di vita, si verifica anche nelle nostre comunità umane nelle quali si susseguono le generazioni. L’esperienza di Gesù Cristo non può essere trasmessa da una generazione all’altra, nella sua forma e nel suo contenuto; come ci insegnano le scritture, dobbiamo trasmettere il racconto del gioioso incontro con Gesù Cristo, affinché i nostri contemporanei, in particolare i giovani (cfr. Es 13; Gs 4), gli aprano la porta del loro cuore (cfr. Ap 3, 20; Gv 4).
Questo è probabilmente il senso profondo della crisi di identità cristiana che ci fa sentire smarriti oggi. Che linguaggio utilizzare per comunicare il Dio di Gesù Cristo all’uomo contemporaneo che ha smesso di porsi la questione di Dio o che la pone in modo errato? L’immagine del Cortile dei Gentili lanciata da Benedetto XVI apre orizzonti interessanti.
La Nuova Evangelizzazione diventa quindi un invito a ricercare nella cultura del nostro tempo il linguaggio più adatto per raccontare questa esperienza, per tradurla in azioni concrete ed eloquenti in tutte le sfere della vita umana.