ROMA, mercoledì, 3 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prima parte dell’omelia tenuta il 28 settembre scorso dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, durante la celebrazione eucaristica con la Comunità dei Pallottini in occasione del 50° anniversario della canonizzazione di Vincenzo Pallotti.
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“Volete adempiere degnamente e sapientemente il ministero della Parola nella Predicazione del Vangelo e nell’insegnamento della Fede Cattolica?” Questa è una delle prime domande che, nella liturgia dell’ordinazione sacerdotale, il vescovo pone ai candidati al momento delle promesse ed è una domanda con la quale, nel servizio sacerdotale, dobbiamo sempre confrontarci, poiché in essa è contenuta la missione fondamentale del sacerdote. Il ministero della Parola ha infatti una priorità speciale tra i compiti che il sacerdote deve assolvere. E ciò è vero in modo particolare per la comunità Pallottina, al cui fondatore, che si è posto fedelmente al servizio della predicazione della Parola di Dio, è stato affidato uno speciale apostolato di evangelizzazione. Da questa missione emerge chiaramente che il sacerdote è in primo luogo evangelista, testimone del Vangelo di Gesù Cristo. Ciò è quanto ci ha ricordato, in maniera inequivocabile, anche il Concilio Vaticano Secondo con il suo “Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri”, soprattutto là dove sottolinea l’importanza della predicazione del Vangelo: “Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della parola del Dio vivente che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti. Dato infatti che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio.”[1]
Essere i fiduciari di un Altro
Il fatto che, nell’ordinazione, il sacerdote riceve il compito di annunciare la Parola di Dio indica che egli non può agire in nome personale e dietro proprio mandato, ma può agire soltanto in nome e dietro mandato di un Altro, più precisamente come fiduciario della Parola di Dio. Questa alta responsabilità diventa visibile nella liturgia dell’ordinazione episcopale ancora di più quando, durante la prefazione di consacrazione, il libro del Vangelo è messo sopra la testa del candidato. Con questo rito, la testa del candidato viene coperta ed il suo viso scompare sotto la Parola posta sopra di lui. In tal modo, il consacrato diventa portatore di Dio, portatore della sua Parola vivente, che è Gesù Cristo stesso, e dunque Cristoforo, portatore di Cristo.
Il compito apostolico della predicazione del Vangelo presuppone quindi un’auto-espropriazione esistenziale di colui che l’annuncia, come ci viene mostrato dal Vangelo odierno sulla missione dei settantadue discepoli. Dalle pochissime cose che Gesù permette ai suoi discepoli di portare con sé si capisce che gli inviati devono poter essere completamente al servizio della Parola di Dio, ovvero al servizio dell’annuncio dell’imminenza del Regno di Dio. La grande sfida di questa missione è insita già nel significato originario del termine “vangelo”. Quando infatti il Vangelo è giunto nel nostro mondo, esso non aveva la stessa connotazione gradevole e innocua che oggi ci adoperiamo a far emergere quando ad esempio parliamo di “buona novella”. Al tempo di Gesù, la parola “vangelo” era piuttosto un termine politico elementare e faceva parte della cosiddetta “teologia politica” dell’epoca. “Vangelo” venivano definiti tutti i decreti dell’imperatore perfino nei casi peggiori, in cui non contenevano per i destinatari nessuna “buona novella”. “Vangelo” significava semplicemente messaggio dell’imperatore. Lieto messaggio esso non lo era dunque in prima linea per il suo contenuto, ma per il fatto che proveniva dall’imperatore, ovvero da colui che -così si credeva- aveva il mondo in pugno.
In questo senso preciso e importante, anche il messaggio di Gesù è vangelo non perché subito ci piace o perché è facile e piacevole, ma poiché proviene da colui che non ha la presunzione, come aveva all’epoca l’imperatore, di essere Dio e di dichiarare pertanto i sui messaggi vangelo, ma che è egli stesso il Figlio di Dio ed offre nel suo vangelo la chiave per giungere alla vera gioia. Anche se la verità del Vangelo non sempre ci pare facile –ed infatti non lo è-, soltanto lei ci dona vera gioia e libertà. In questa parola del messaggio regale traspare la verità, o meglio, è Cristo la Parola di verità, come lui stesso ci annuncia: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).
La voce degli uomini per la Parola di Dio
Questa grande sfida del Vangelo noi dobbiamo assumerla nel ministero apostolico della predicazione. Ciò che significa di concreto ce lo spiega Sant’Agostino con un’immagine molto eloquente. Egli parte dall’osservazione che nel Nuovo Testamento Giovanni Battista, il precursore del Signore, viene definito “voce”, mentre Cristo è chiamato “Parola”. Con questa relazione tra Parola e voce, Sant’Agostino spiega l’essenza del ministero apostolico. La voce umana ha il compito principale di trasmettere la parola da un uomo all’altro; quando ha reso tale servizio, può e deve ritirarsi, tacere, affinché al centro rimangala parola. Cosìanche la missione particolare del testimone apostolico consiste nell’essere la voce vivente-sensoriale al servizio della Parola che la precede, e nel far sì che la Parola abbia sempre il primato sulle voci degli uomini e la Chiesa non sia una mera comunità di parole umane, ma realmente Chiesa della Parola di Dio.
Chi ha il compito dell’apostolato dell’evangelizzazione, vedrà in Giovanni Battista l’esempio e il modello per la propria missione. Non si accede infatti a Gesù e al suo Vangelo senza il Battista, il quale rimane sempre dietro colui che egli annuncia e ci indica continuamente colui che viene. Giovanni Battista, come ogni vero testimone, ha la sua identità nella non-identità, nell’essere riferimento a ciò che egli stesso non è. Per questo egli è il prototipo del ministero apostolico nella Chiesa. Come Giovanni Battista non ha mai indicato se stesso, ma soltanto il Cristo che viene, così anche l’annunciatore del Vangelo altro non deve essere che un riferimento vivente ed eloquente a Cristo, che èla Parola. Il testimone del Vangelo deve mettersi, come voce, a disposizione di Cristo per far spazio alla sua Parola e con la sua vita deve fare in modo che Cristo abbia “il primato su tutte le cose” (Col 1,18). Ciò che conta, infatti, non è la voce, ma la Parola.
[La seconda parte verrà pubblicata giovedì 4 ottobre]
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NOTE
[1] Presbyterorum ordinis, n. 4.