di Salvatore Cernuzio
CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 30 giugno 2012 (ZENIT.org) – “Solo la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità”. È questo il messaggio fondamentale su cui Benedetto XVI ha posto l’accento durante la Messa per la Solennità dei Santi Patroni di Roma, gli Apostoli Pietro e Paolo, celebrata ieri mattina, nella Basilica Vaticana.
Una fraternità data dalla fede che ha reso queste “due colonne della Chiesa” inseparabili, tanto che la comunità di Roma li considerò l’altare cristiano contrapposto a quello pagano di Romolo e Remo, la coppia mitica di fratelli a cui si attribuisce la fondazione della Capitale.
E così come – ha proseguito il Papa – Caino e Abele, la prima coppia biblica di fratelli, “ci mostra l’effetto del peccato” dal momento che uno uccide l’altro; Pietro e Paolo, invece, “hanno realizzato un modo nuovo e autentico di essere fratelli, reso possibile proprio dalla grazia del Vangelo di Cristo operante in loro”, anche se “differenti umanamente e malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti”.
L’importanza di tale fraternità, ha concluso il Santo Padre, continua a riflettersi oggi “anche sulla ricerca di quella piena comunione, cui anelano il Patriarcato Ecumenico – di cui era presente una delegazione alla celebrazione – e il Vescovo di Roma, come pure tutti i cristiani”.
Simbolo di questa comunione è il sacro Pallio che Benedetto XVI ha consegnato, durante la Messa, a 43 nuovi Arcivescovi Metropoliti e che verrà consegnato nelle loro Sedi metropolitane ad altri tre Presuli.
Il Santo Padre si è soffermato, poi, sulle figure dei due Apostoli e sulle loro prerogative, messe in evidenza dalle imponenti statue davanti alla Basilica di San Pietro: “le chiavi nella mano di Pietro e la spada tra le mani di Paolo”. Due segni che identificano le missione che Cristo ha assegnato a ciascuno di loro.
Innanzitutto quella di Pietro di essere «roccia», “fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa”, come racconta il Vangelo di Matteo. Un compito che il Signore affida a Pietro in virtù della confessione di fede con cui egli “riconosce Gesù Messia e Figlio di Dio”.
La professione di fede di Simon Pietro, il riconoscimento, cioè, dell’identità di Gesù pronunciato a nome dei Dodici, “non proviene però dalle sue capacità umane” – ha precisato Papa Benedetto – «dalla carne e dal sangue», ma “da una particolare rivelazione di Dio Padre”.
Ciò manifesta la debolezza umana del discepolo, che da “pietra sulla strada in cui si può inciampare”, può diventare solida roccia solo “per dono di Dio”. Appare evidente, dunque, una “tensione che esiste tra il dono che proviene dal Signore e le capacità umane” ha osservato il Papa. La stessa tensione che caratterizza la storia del papato.
“Da una parte – ha infatti rimarcato – grazie alla luce e alla forza che vengono dall’alto, il papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo; dall’altra, lungo i secoli emerge la debolezza degli uomini, che solo l’apertura all’azione di Dio può trasformare”.
In tal senso, giunge quasi come una consolazione la forte e chiara promessa di Gesù: “le porte degli inferi non potranno avere il sopravvento”; una promessa “ancora più grande di quelle fatte agli antichi profeti”.
Laddove questi ultimi – ha spiegato il Pontefice – “erano minacciati solo dai nemici umani”, Pietro invece “dovrà essere difeso dal potere distruttivo del male”. Viene quindi “rassicurato riguardo al futuro della Chiesa, della nuova comunità fondata da Gesù Cristo e che si estende a tutti i tempi, al di là dell’esistenza personale di Pietro stesso”.
Tutto ciò è simboleggiato dal segno delle chiavi: “a Simon Pietro, in quanto fedele amministratore del messaggio di Cristo, spetta di aprire la porta del Regno dei Cieli, e di giudicare se accogliere o respingere” ha detto il Papa. Tale autorità è evidenziata dal parallelismo «sulla terra … nei cieli», che “garantisce che le decisioni di Pietro nell’esercizio di questa sua funzione ecclesiale hanno valore anche davanti a Dio”. Anche l’altra similitudine che Gesù spiega ai discepoli nel Vangelo di Matteo, ovvero “di sciogliere e di legare”, identifica un’altro potere: “di rimettere i peccati”.
È questa una “grazia”, ha indicato il Pontefice, “che toglie energia alle forze del caos e del male, ed è nel cuore del mistero e del ministero della Chiesa”, la quale “non è una comunità di perfetti, ma di peccatori che si debbono riconoscere bisognosi dell’amore di Dio e di essere purificati attraverso la Croce di Gesù Cristo”.
Un piccolo cenno, infine, alla figura di San Paolo, raffigurato dalla tradizione iconografica con la spada, che rappresenta “lo strumento con cui egli fu ucciso”. “Leggendo però gli scritti dell’Apostolo delle genti – ha spiegato il Santo Padre – scopriamo che si riferisce a tutta la sua missione di evangelizzatore”. Paolo, infatti, ha “combattuto la buona battaglia”: di certo non “la battaglia di un condottiero”, ha soggiunto, “ma quella di un annunciatore della Parola di Dio, fedele a Cristo e alla sua Chiesa, a cui ha dato tutto se stesso”. Proprio per questo “il Signore gli ha donato la corona di gloria e lo ha posto, insieme con Pietro, quale colonna nell’edificio spirituale della Chiesa”.
Rivolgendosi poi agli Arcivescovi Metropoliti, Benedetto XVI ha esortato a non dimenticare che il sacro Pallio ricevuto è simbolo che essi sono stati “costituiti nel e per il grande mistero di comunione che è la Chiesa, edificio spirituale costruito su Cristo pietra angolare e, nella sua dimensione terrena e storica, sulla roccia di Pietro”.
“Animati da questa certezza – ha concluso – sentiamoci tutti insieme cooperatori della verità, la quale è una e «sinfonica», e richiede da ciascuno di noi e dalle nostre comunità l’impegno costante della conversione all’unico Signore nella grazia dell’unico Spirito”.