La vittoria di Intisar contro la lapidazione

Grazie alla mobilitazione familiare e internazionale è stata ribaltata la sentenza della Corte di Ombada che prevedeva la pena di morte per la donna accusata di adulterio

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di Valentina Colombo

ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org) – Nomen omen dicevano i latini. Il nome arabo Intisar significa “Vittoria” ed infatti la sudanese Intisar Sharif Abdallah ha vinto contro una condanna a morte per lapidazione. Il 13 maggio scorso il giudice Sami Ibrahim Shabo della corte penale di Omdurman l’aveva condannata sulla base dell’articolo 146° del codice penale secondo il quale: “chiunque sia reo di adulterio sarà punito come segue: a. lapidazione, se la persona offesa è sposata; b. cento frustate, se la persona offesa non è sposata”.

L’accusa nei confronti di Intisar era di aver avuto una relazione extra-coniugale e di essere rimasta incinta. Inizialmente la donna si era dichiarata non colpevole, ma il tribunale era riuscito ad avere l’ammissione di colpa da parte della ventenne sudanese a seguito di intimidazioni verbali e fisiche da parte del fratello.

Ovviamente l’accusa era rivolta solo a Intisar e non all’uomo che avrebbe commesso adulterio con lei, immediatamente scagionato. La ragazza era stata arrestata con il suo neonato. Come se tutto ciò non bastasse la donna non aveva goduto dell’assistenza legale durante per l’intero procedimento giudiziario.

Fortunatamente alcuni membri della sua famiglia hanno presentato ricorso presso la Corte d’appello di Ombada e, grazie anche alla mobilitazione internazionale, il 21 giugno scorso si è giunti a un ribaltamento della sentenza che violava palesemente gli standard internazionali.

Intisar non è stata la prima donna a essere condannata alla lapidazione in un paese islamico e non sarà purtroppo l’ultima.

Quali sono le origini di questa prescrizione islamica? L’adulterio viene punito nel Corano con cento frustate sia per l’uomo che per la donna (XXIV, 2) e solo in seguito avrà per sanzione legale la lapidazione.

Se il Corano esige quattro testimoni dell’atto di adulterio, anzi dell’atto di penetrazione, prima di autorizzare la punizione, la pratica posteriore sarà più sbrigativa e consentirà la condanna a morte anche se la donna è solo sospettata dal marito o dal fratello.

E’ sufficiente leggere alcuni articoli del Codice penale in vigore nella Repubblica islamica dell’Iran per rendersi conto dell’atrocità di questo dettame.  L’articolo 63 definisce l’adulterio come “il rapporto – compreso quello anale – tra un uomo e una donna che sono proibiti l’uno all’altra, a meno che non si tratti di un atto involontario”.

In base all’articolo 64 “l’adulterio è punibile quando l’adultero/a è adulto/a è pienamente cosciente e consapevole dell’illiceità della propria azione”. Le regole concernenti la prova di adulterio in tribunale dimostrano quanto la donna, proprio come nel caso di Intisar, sia più facilmente perseguibile rispetto all’uomo.

Addirittura all’articolo 74 si afferma che “l’adulterio può essere provato solo dalla testimonianza di quattro uomini onesti oppure di tre uomini e due donne”, in ottemperanza alla regola del diritto islamico che vuole che la testimonianza di un uomo corrisponda a quella di due donne.

Purtroppo la lapidazione ancora oggi è una forma punitiva legale in Afghanistan, Iran, Nigeria (in circa un terzo dei 36 stati), Pakistan, Arabia Saudita, Sudan, e negli Emirati Arabi Uniti. In Iran la lapidazione è persino prevista dal codice penale ed è eseguita dalla giustizia statale, mentre in Pakistan e Iraq la punizione viene eseguita prevalentemente in ambito familiare.

In Nigeria, è celebre il caso di Amina Lawal, e negli Emirati Arabi Uniti, a seguito di proteste e campagne internazionali, alcune lapidazioni sono state fortunatamente sospese. Sempre in Nigeria nel 2005 è stato condannato alla lapidazione un uomo per avere avuto rapporti omosessuali.

Qualche anno fa il sito “Women living under Muslim laws” (www.wluml.org) ha lanciato una Campagna globale per fermare l’uccisione e la lapidazione delle donne. Nel documento ufficiale si legge: “L’uccisione di donne – con qualsiasi pretesto – è inaccettabile. E si tratta tra l’altro di una grave violazione della legge internazionale sui diritti umani” (www.stop-stoning.com).

A queste voci si aggiungono quelle di molti intellettuali liberali, quali ad esempio il tunisino Lafif Lakhdar, che combattono per ottenere l’abolizione delle pene corporali islamiche. Bisogna invece fare molta attenzione a chi invece nel mondo islamico invoca semplicemente una moratoria di queste pene perché di fatto una loro abolizione significherebbe contravvenire ai dettami dei dottori della legge islamica.

Le donne come Intisar e Amina saranno salvate solo da una mobilitazione interna ed esterna che miri all’abolizione senza se e senza ma delle pene corporali previste dalla sharia.

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ZENIT Staff

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