"La cultura è la penna di Dio"

Discorso del rettore della PUL in occasione della presentazione del volume di studi dedicati a mons. Molinari

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ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo il testo del discorso pronunciato questa sera a L’Aquila dal Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, Don Enrico dal Covolo, in occasione della presentazione della Miscellanea di Studi in onore di mons. Giuseppe Molinari, nel cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale.

***

Eccellenza Reverendissima,
Autorità religiose, accademiche, civili e militari,
Illustri Signore e Signori,
Amici tutti.

Permettetemi di iniziare con una domanda, lievemente provocatoria: perché una Miscellanea di Studi in onore di S.E. Mons. Molinari?

Del resto, si tratta di una domanda assolutamente legittima, perché proprio nella risposta ad essa – che fluirà lungo questo mio breve intervento – c’è il motivo del nostro stare insieme per festeggiare questa sera i cinquant’anni di sacerdozio dell’Arcivescovo Molinari.

Sono contento e grato di partecipare a questo evento, perché, come Rettore della Pontificia Università Lateranense, desideravo testimoniare tutta l’attenzione dell’Università del Papa a un Vescovo che ha creduto nel lavoro culturale, teologico, scientifico, e che ha saputo intensificare sforzi e risorse per la rinascita di questo Istituto Superiore di Scienze Religiose e di tutte le sue attività connesse, come la nuova Biblioteca, la Collana di studi, la Rivista Teologica, le Settimane Bibliche e i diversi Simposi.

Penso che a buon ragione si possa affermare questa sera che Mons. Molinari ha saputo accogliere in maniera egregia quell’invito che san Pietro rivolge ai cristiani nella sua prima Lettera, cioè l’appassionata esortazione affinché i credenti “siano pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza” che è in loro (1Pt 3,15).

Di fatto, senza la ragione la speranza rischia di rimanere un sentimento, o un’emozione che svanisce di fronte alle complessità della temperie storico-culturale, per lasciare il posto alla tristezza, alla rassegnazione, a quello che i filosofi contemporanei chiamano il “male oscuro”.

Ebbene, la fede e la ragione insieme, dialogando tra loro, devono giungere ad animare efficacemente la nostra cultura di oggi, così ferita dalla “dittatura del relativismo” (per usare le parole del nostro amato Papa Benedetto XVI). E’ questo il tema delle riflessioni che vi propongo, in margine dal volume di studi che oggi consegniamo a Mons. Molinari, nel cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale.

Nell’Omelia pro eligendo pontifice lo stesso Benedetto XVI ebbe parole profetiche sulla nostra contemporaneità:

Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità, disse il Papa in quel famoso 18 aprile 2005. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4,14). Una descrizione molto attuale! Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo a un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo, e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.

1. Come primo punto, vorrei fermarmi a parlare per qualche istante di questa dittatura, di questo egoismo elevato a sistema.

La cultura non è un hobby, un passatempo, o un lavoro riservato a pochi. La cultura rappresenta uno degli strumenti principali nell’opera dell’evangelizzazione, nel lavoro pastorale, e nel nostro sforzo personale e quotidiano di essere cristiani.

Ma – ci chiediamo – in un mondo dominato dalle leggi, spesso incomprensibili e ingiuste, della finanza internazionale, ha ancora senso parlare di cultura?

Credo che sia sotto gli occhi di tutti la profonda crisi globale che da un capo all’altro del mondo sta investendo i popoli e le società. Il sistema economico, così come lo abbiamo concepito sino a ieri, non solo ha deluso le aspettative, ma pare abbia messo in atto un meccanismo distruttivo nei confronti dell’uomo stesso, a cui invece dovrebbe essere asservito. La famosa massima: “Lavoro per vivere, e non vivo per lavorare”, viene ogni giorno messa in discussione da strutture di potere che ormai paiono rispondere solo a logiche di profitto completamente slegate da qualsiasi discorso etico.

Ma l’uomo è – o non è – molto di più del semplice “sopravvivere”?

L’uomo è capace di vita. E’ capace di una qualità di “esistere” nettamente superiore a tutti gli altri esseri viventi. E ciò non gli viene da particolari abilità tecniche o da particolari doti di forza, ma da quel luogo profondo e misterioso che è la sua capacità interiore, la sua capacità di ascolto dell’altro. L’uomo è l’unico essere vivente capace di non “consumare” semplicemente la vita. E’ l’unico capace di guardarci dentro, di ricollegarla con un orizzonte di senso più grande della semplice esperienza. Ecco perché la crisi contemporanea non è crisi di banche, ma è crisi di valori. Ciò che oggi è messo in discussione è esattamente la natura dell’uomo, la sua capacità di vivere e di guardare dentro la vita. E l’uomo, per fare questo, ha dalla sua parte due cose importanti: l’intelligenza e il cuore.

2. L’intelligenza è molto di più della semplice connessione di ragionamenti e di logiche. L’intelligenza, come dice la parola stessa, è saper leggere dentro l’esperienza. Senza questa capacità intuitiva, senza questo guardare l’essenza delle cose, noi non saremmo diversi dal resto dell’universo. Ma invece lo siamo fin nel più profondo del nostro essere. L’intelligenza si esprime attraverso alfabeti importanti, gravidi di domande. Forse è questo il motivo per cui il Vangelo è carico di domande. Gesù, che per noi è la Via, la Verità e la Vita, cioè la risposta vera alla grande domanda della vita, insegna ai discepoli la nostalgia della verità attraverso le domande. Esse non sono mai retoriche, ma sono strumento, attraverso cui il discepolo comprende ciò che sta per ricevere, e che gli cambierà la vita. In un mondo frenetico, dove non ci sono pause, dove persino la domenica viene messa in discussione, l’uomo è chiamato a riprendersi uno spazio per tornare a muovere la propria intelligenza, per tornare a guardare dentro la propria esperienza.

In fin dei conti, la domenica per noi cristiani dovrebbe essere un tempo di intelligenza della fede, cioè un tempo in cui guardare dentro la nostra esperienza attraverso il “rendimento di grazie”, cioè l’Eucaristia. Un cristiano senza intelligenza, cioè senza “ragioni”, riduce il cristianesimo a moralismo o a sentimentalismo.

Ma l’intelligenza da sola non basta: c’è bisogno anche del cuore.

Il Concilio Vaticano II usa il termine coscienza, e dice che essa è il “sacrario dell’uomo”, cioè il luogo della sintesi, dove l’uomo non solo fa i conti con se stesso, ma dove può parlare “faccia a faccia” con Dio, p
erché Dio non è il nostro cuore, ma esso (il cuore) è il luogo teologico per eccellenza, il luogo dove possiamo incontrarLo e discernere alla Sua luce.

Sant’Agostino, a questo riguardo, ha parole bellissime nella sue Confessioni:

Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi del desiderio della tua pace (Confessiones 10, 27, 38).

Agostino ci ricorda dunque che il viaggio che dobbiamo fare non è fuori di noi, ma dentro ciascuno di noi. Anzi la nostra apertura al mondo è tanto grande e tanto coerente quanto è grande la nostra capacità di interiorità. Ma se intorno a noi c’è la crisi, non dobbiamo cercare la nostra interiorità nelle curve delle borse e dei mercati internazionali. Dobbiamo rintracciarla dentro ciascuno di noi. Nessuno, o pochi, ci educano a questa interiorità, a questo viaggio “dentro”: di solito, è svenduta più ideologia che educazione.

Ma, tornando al nostro discorso, dobbiamo ripetere che non basta l’intuizione o l’intelligenza: c’è poi bisogno anche del discernimento, del cuore, della sintesi, perchè nel discernimento noi diamo senso all’esperienza.

3. Ora, cari amici, che cos’è la cultura, se non cercare di dar senso all’esperienza?

Viene da sé, allora, che il lavoro che si fa in questo Istituto Universitario, come in qualsiasi altra struttura accademica, è un lavoro autenticamente umano, e – in quanto tale – esso è anche squisitamente cristiano. La lungimiranza pastorale di Mons. Molinari ha fatto sì che questa città, che questo territorio, che questa Chiesa avessero un luogo che educa alla cultura, che forma uomini e donne “capaci” di domande. Se prendiamo, allora, sul serio questa educazione alla cultura, questa educazione a cercare il senso dentro le esperienze che facciamo nella nostra vita; allora noi abbiamo avviato in maniera radicale un capovolgimento della crisi contemporanea.

Viceversa, emarginare la cultura, in tutte le sue espressioni, significa emarginare l’uomo nel suo aspetto più caratteristico, più suo, più umano. E anche questa città ferita dal terremoto, non rinascerà veramente se, oltre alle malte, alle pietre e alle strade non verranno fuori uomini e donne nuovi, rinnovati. La cultura può davvero salvare questa città, o per lo meno può fornirle un’energia forte e vitale per la sua rinascita.

Ma c’è un altro rischio dal quale dobbiamo guardarci: il rischio è quello di una falsa idea di cultura.

La vera cultura è quella che crea comunione, è quella di chi sa perdere tempo con chi fa più fatica. E’ inclusiva, non esclusiva. Perché, se la cultura rimane un diletto di pochi, allora la radice della discriminazione, della contrapposizione, e in alcuni casi anche dell’odio, sedimenta in mezzo a noi.

Per questo la “comunicazione” diventa elemento essenziale di cultura.

La parola stessa ce lo ricorda nella sua radice (comunione-comunicazione). Noi viviamo nell’era della comunicazione globale. Soprattutto internet, e i nuovi social network, sono diventati strumenti formidabili, attraverso cui comunichiamo e ci confrontiamo. In particolare – lo si voglia o no – sono i “nuovi cortili”, in cui incontrare i ragazzi e i giovani.

Ebbene, una vera cultura è tale se è capace di comunicazione, ma anche se è capace di discernimento dentro la comunicazione. Non bastano i giornali, piccoli o grandi, nostri o di altri, che spesso tentano di sedurre (più che di informare) il lettore. C’è bisogno di uno spirito critico, di una capacità di giudizio, a cui Gesù stesso fa appello nel suo Vangelo: “Giudicate da voi stessi” (Lc 12,57), egli dice perentoriamente ai suoi discepoli, forse anche loro impigriti, e a tratti creduloni più che credenti. Dietro a questa richiesta c’è l’esigenza da parte di Gesù di risvegliare l’uso della ragione nel grande mondo della comunicazione. Molto spesso assistiamo a veri e propri attacchi mediatici, che, visti i mezzi e le capacità globali, nell’arco di pochi istanti si allargano a macchia d’olio in tutto il territorio del globo. In diverse zone del mondo i cristiani subiscono il martirio con violenze indicibili e ingiustificabili, e l’esempio più attuale è quello della Nigeria. Eppure il mondo dell’informazione ignora quasi sistematicamente questi eventi per concentrarsi su altri aspetti, molto più marginali, scandalistici, e che comunque hanno lo scopo di attaccare la credibilità di un’istituzione. Molta gente rimane scandalizzata dalle notizie che circolano, e molto spesso la gente è quasi completamente impreparata di fronte alle cose che ascolta.

Anche in questo l’opera del nostro Istituto e della promozione culturale messa in atto da Mons. Molinari rappresenta un contributo importante, affinchè anche il mondo della comunicazione ritrovi una sua etica, o per lo meno, prepari persone più attente, che sappiano accogliere la comunicazione in maniera meno acritica.

La sfida della cultura è una sfida educativa, come il Vangelo ci insegna. Perché, come dice Gesù stesso, solo la Verità ci farà liberi (cfr. Gv 8,32). E La Verità di cui parliamo non è soltanto qualche cosa di intellettuale; è una Verità che riguarda tutta la persona, in tutte le sue dimensioni.

In fin dei conti chi è il sacerdote, chi è il vescovo? E’ uno che dedica tutta la sua vita a questa educazione, a questa comunicazione di Verità attraverso l’unico linguaggio credibile che il Vangelo ci insegna: l’Amore

4. Vorrei illustrare ancora un concetto, che va nella medesima direzione delle riflessioni fin qui svolte, riguardo alla fede, la ragione e la cultura. Ecco il titolo di quest’ultima riflessione: La cultura è la penna di Dio, e i bambini ne sono l’inchiostro.

E’ un’affermazione, questa, che mi è sgorgata dal cuore, non saprei dire precisamente come, mentre consideravo da una parte l’attenzione del nostro Vescovo alla cultura, dall’altra la sua sollecitudine per i piccoli e per i poveri.

Cercherò adesso di spiegare brevemente questa affermazione, e così concludo.

Dobbiamo riconoscere anzitutto che la cultura, se è veramente tale, quando cioè promuove e coltiva effettivamente i valori umani, è senza dubbio “una penna di Dio”. Con questa stessa “penna” gli uomini collaborano ai disegni di Dio e completano la sua creazione, ubbidendo al comando di “riempire” la terra e di “dominarla”. Appare dunque evidente che, per essere “penna di Dio”, la cultura non potrà mai opporsi al disegno della creazione. E’ solo nel rispetto dell’ordine creaturale, infatti, che la cultura “fa crescere”, in misura sempre più piena, la dignità della persona umana, in un rapporto sereno ed equilibrato con l’ambiente circostante. Viceversa, una cultura che pretende di svolgersi in opposizione all’ordine della creazione, o al di fuori di esso, fatalmente degenera in “non-cultura”, o – come più spesso si dice – in una “cultura di morte”.

Così, a rigore parlando, non può essere definita “culturale” nessuna iniziativa in cui – mentre magari si accampano vantaggi o migliorie di vario genere – di fatto viene compromessa la dignità dell’uomo.

In definitiva, per essere “penna di Dio” la cultura deve rimanere autenticamente se stessa, rispettosa della Verità, libera nella ricerca, mai succube dell’ideologia e del potere.

Ebbene, di questa cultura autentica, che è “penna di Dio”, i
bambini sono l’inchiostro.

In effetti, i bambini sono la punta dell’iceberg della cultura, nel senso che il modo in cui una cultura si atteggia nei confronti della vita ai suoi inizi, svela gli orientamenti profondi, e talora reconditi, di quella cultura, vera o presunta che sia.

Una cultura che di fatto non tutela il bambino – dal concepimento fino ai traguardi fondamentali della sua educazione – non è vera cultura, e non è “penna di Dio”: ne isterilisce l’inchiostro, e diventa una penna incapace di scrivere.

Così l’asserto, che vi ho enunciato, si trasforma in un auspicio appassionato, che sfida la situazione del momento presente: che la cultura diventi veramente quello che è chiamata ad essere, cioè una penna di Dio; una cultura di solidarietà, capace di accogliere i piccoli! Che di questa cultura i bambini siano l’inchiostro efficace, finalmente affrancati da ogni schiavitù!

*

Cara Eccellenza, cinquant’anni di sacerdozio sollecitano comunque un bilancio. Ma – lo sappiamo bene – davanti a Dio non contano le cose esterne, ma le direzioni del cuore. Lo diceva già san Cipriano: Non vocis, sed cordis auditor est Deus! (L’orazione del Signore 4).

Il Signore guarda il cuore, non l’apparenza (cfr. 1Sam 16,7).

E la vera grande opera che Lei, Eccellenza, ha testimoniato in mezzo secolo di ministero sacerdotale credo che sia esattamente questo: amare appassionatamente, senza riserve, ciò che Le è stato affidato. Anche a Lei il Signore ha detto, come a Pietro sulle rive del mar di Galilea: Se mi ami, pasci…

E Lei lo ha fatto, carissimo Padre.

Gradisca allora questo nostro omaggio; è il segno esterno dell’affetto della Sua Diocesi e di tutti quelli che Le vogliono bene; è la miscellanea di studi che porta come titolo il Suo stesso motto episcopale: Ex coelesti virtute.

Allora – ecco ciò che insieme chiediamo al Signore – allora capiti a noi ciò che è accaduto a Lei.

Che anche noi possiamo trovare la forza dall’alto, dal Cielo, per cambiare tutto ciò che viviamo quaggiù, in questa vita, e in questa storia che ci è stata affidata. 

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ZENIT Staff

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