L'Università comunità educante in una società complessa (Prima parte)

Per una cultura della qualità accademica

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di Monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, sabato, 23 giugno 2012 (ZENIT.org).- Diciamolo subito: non è la complessità che ci fa paura.1

In età moderna e contemporanea – dalle dichiarazioni illuministiche sulla ragione, fino alla demitizzazione del progresso – ci siamo finalmente persuasi che, in effetti, la realtà è complessa, e che la competenza umana è limitata, fallibile, benché sempre perfettibile.

È questa una conquista della ragione: una conquista che arricchisce di plausibilità ulteriore il senso della Rivelazione, mentre impegna la ragione stessa in un cammino inesausto di ricerca.

Sia ben chiaro. E’ una conquista che non ha nulla da spartire con il relativismo. Relativismo, infatti, non vuol dire che la ragione umana è limitata, bensì che qualunque posizione ha il medesimo valore di un’altra.

Così la scelta del relativismo si pone in irrimediabile contrasto con la ricerca autentica della verità.

Diversa è la visione della «liquidità», o della «modernità liquida», espressioni adottate con grande fortuna dal sociologo polacco Zygmunt Bauman (vivente, nato a Poznan nel 1925) per indicare che la società odierna è fragile e disunita.2

Non ci sono regole forti; si sono indeboliti le comunità religiose e i partiti politici; tutti i rapporti – e non solo quelli di lavoro – sono precari, anche nella famiglia e nella coppia, mentre l’educazione svanisce, e prevale l’impulso immediato.

Una «società liquida e divisa» è l’esito della statizzazione del diritto naturale, per cui i valori vengono sottoposti al voto e alle decisioni della maggioranza. Conviene approfondire questo argomento, prima di entrare direttamente nel tema in esame.

1. Educazione e valori

Di fatto, i valori non sono disponibili alle decisioni della maggioranza: per questo stesso motivo, essi non sono affatto negoziabili.

D’altra parte, senza valori condivisi e vissuti, non esiste una convivenza civile.

Le religioni e la famiglia sono all’origine della convivenza civile: le religioni, perché fanno leva sulla coscienza delle persone, con il riferimento al Trascendente; e la famiglia, perché – fondata sull’amore degli sposi, maschio e femmina – porta con sé gli altri valori: dono, fedeltà, sincerità, lealtà, generosità, sacrificio, collaborazione, e così via. E questo non in forma teorica e astratta, ma nell’esistenza concreta e quotidiana.

Senza la religione e senza l’amore di chi genera la vita, la convivenza umana non può esistere.

Il concetto medesimo di persona è entrato nella cultura occidentale attraverso una religione, il cristianesimo, in riferimento alle «Persone divine», quali «relazioni sussistenti».3

Le Persone divine sono tra loro in relazione: lo ha chiarito a sufficienza la bimillenaria riflessione teologica sulla Persona di Gesù Cristo, Uomo e Dio. In Lui vi è una sola Persona, e ci sono due nature: un solo centro responsabile, la Persona, oltre alle nature medesime. E tale Persona è relazione sussistente.4

Allo stesso modo, la persona umana è relazione, è il punto dal quale scaturisce la responsabilità dinanzi ai valori. Lo ha riconosciuto anche Kant, quando affermava che la persona umana è sempre fine, mai mezzo: e ne ha ricavato il conseguente imperativo categorico.

La persona è coscienza, interiorità.

D’altra parte, la persona umana non crea se stessa, non è la fonte ultima della responsabilità e dei valori. La persona umana è creata a immagine e somiglianza di Dio.

Purtroppo, quando – in qualunque modo – si distrugge il rapporto con le Persone divine, l’uomo non riesce più a trovare l’origine ultima della propria responsabilità e dei valori, che lo caratterizzano come persona. Si indeboliscono, fino a spezzarsi, le relazioni con le persone. L’uomo stesso si considera – sempre praticamente: ma, spesso, anche teoricamente – un assoluto, che può disporre della propria responsabilità senza limiti, senza essere più legato ai valori.

Senza riferimento al Trascendente, la responsabilità non ha più un punto di riferimento né una sanzione, e la libertà diventa un assoluto senza freno.

La persona umana, in quanto relazione, nasce e si sviluppa lungo tutta la vita all’interno di relazioni: l’amore generante è relazione, e prima ancora lo è l’Amore che crea la persona umana. Relazione significa responsabilità, libertà, valori. E la relazione è originariamente educativa, perché è destinata a far crescere le persone che vi sono coinvolte.

Poiché nessuno di noi è perfetto e pienamente realizzato, ognuno ha un impegno costitutivo di crescere e di migliorare lungo tutto l’arco della vita; e se la persona umana è relazione, noi cresciamo e ci sviluppiamo all’interno di relazioni umane costruite su valori vissuti.

Al termine degli Esercizi Spirituali in Vaticano, il 27 febbraio 2010, Benedetto XVI ha pronunciato una parola conclusiva su questo argomento: «L’uomo», ha detto il Papa, «non è perfetto in sé; l’uomo ha bisogno della relazione, è un essere in relazione. Non è il suo cogito che può cogitare tutta la realtà. Ha bisogno dell’ascolto, dell’ascolto dell’altro… Solo così conosce se stesso, solo così diviene se stesso».5

Le relazioni sono necessarie per ogni persona umana: senza di esse non viviamo. La distruzione delle relazioni comporta la perdita dei valori (e viceversa).

È solo all’interno di relazioni costruite su valori condivisi e vissuti che avviene la nostra realizzazione, attraverso una sussidiarietà che significa scambio continuo e sempre più allargato, in vista della felicità di ognuno: esiste uno scambio di realtà materiali, come esiste uno scambio di realtà spirituali.

Dunque, le relazioni autenticamente umane sono fondate sui valori, e vivono di essi. Questi valori sono garantiti dal diritto (che non è la legge). L’obbligo giuridico «viene a definirsi come giuridico soltanto se ridotto logicamente alla pretesa che gli corrisponde».6 A questo punto – unicamente in questa situazione relazionale, costitutiva della persona umana – diventa un «tu devi».

Si può rileggere e meditare in questa prospettiva l’ormai celebre Discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino del 22 settembre scorso. Ma già nel suo discorso ai partecipanti al Convegno di studio organizzato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi, in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico (25 gennaio 2008), il Papa ricordava un’espressione «davvero incisiva del beato Antonio Rosmini: “La persona umana è l’essenza del diritto”7».

Bisogna riconoscere, in maniera coerente, che qualunque forma di comunità, di associazione o di organizzazione della convivenza è sussidiaria alla persona. La sussidiarietà è costitutiva della convivenza civile, perché permette alle persone di crescere attraverso un apporto reciproco, secondo le proprie competenze.

Uscire da questo scambio significa allontanarsi dalla convivenza civile e da ogni realizzazione autentica della persona.

In definitiva, tutte le forme di organizzazione della convivenza e della società civile sono in funzione della realizzazione dei diritti personali, e possono avere esiti positivi solo all’interno di un habitat di valori vissuti e sviluppati dalle famiglie e dalle religioni. Il principio di sussidiarietà intende garantire proprio questo, configurandosi come aiuto e sostegno, affinché non vi sia sovrapposizione né imposizione gerarchica o burocratica né, infine, dispotismo in nome della libertà.

Quando, purtroppo, succede che le persone umane son
o espropriate dei loro diritti, ne conseguono due situazioni ugualmente insostenibili: le relazioni umane sono distrutte, e la convivenza civile è paralizzata.

Non c’è bisogno di rispolverare i catechismi della Rivoluzione Francese, per documentare come gli Stati, per mezzo della scuola, abbiano cercato il consenso dei sudditi. Basti ricordare quanto ha affermato con chiarezza Judith Krug nel 1986: «La questione riguarda quali valori vadano insegnati, quelli dei genitori o quelli dello Stato. Si combatte sempre per le menti dei bambini».8

È documentato come moltissimi genitori si siano rifiutati di inviare i propri figli a quel tipo di scuole di Stato. Ciò è avvenuto non solamente in Francia nel 1792; precedentemente era accaduto in Prussia dopo il 1763, quando Federico II aveva imposto la scuola governativa obbligatoria per tutti; ed è accaduto pure nel nostro Risorgimento, benché questi fatti vengano per lo più occultati.

*

NOTE

1 Cfr. C. Caffarra – E. dal Covolo, “L’educazione è cosa di cuore”. La responsabilità degli educatori oggi, LUP, Città del Vaticano 2011 (soprattutto le pp. 19-34). Vedi anche R. Bonino, Educazione e complessità sociale, in Evangelizzazione e educazione, LAS, Roma 2011.

2 Cfr. per esempio Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2011, e da ultimo R. Sala, L’umano possibile. Esplorazioni in uscita dalla modernità, LAS, Roma 2012 (soprattutto le pp. 49-119: “Zygmunt Bauman: effetti indesiderati della modernità”).

3 Vedi sul tema le varie pubblicazioni di Andrea Milano, a partire da Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Edizioni Dehoniane, Napoli 1984.

4 Si può rileggere, al riguardo, J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969 (più volte riedito), soprattutto le pp. 138-141.

5 La citazione è tratta dalla quarta di copertina di E. dal Covolo, In ascolto dell’altro. “Lezioni” di Dio e della Chiesa sulla vocazione sacerdotale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010.

6 B. Leoni, Il diritto come pretesa, Liberilibri, Macerata 2004, p. 52.

7 A. Rosmini, Filosofia del diritto, Parte I, lib.I, cap. 3.

8 Cfr. “Education Week”, 6 novembre 1986.

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ZENIT Staff

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