"Pane e pace" di Antonio Pascale

Un libro tra letteratura e divulgazione scientifica per parlare di Ogm

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di Antonio D’Angiò

ROMA, sabato, 16 giugno 2012 (ZENIT.org).- Antonio Pascale, quarantaseienne funzionario presso il Mipaaf (Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali) e affermato scrittore, ha la capacità e fortuna di poter fare del proprio lavoro sia narrazione letteraria sia divulgazione scientifica e, con questa nuova agile opera (cento pagine; 7,5 euro; edizioni chiarelettere) utilizza la storia della propria famiglia per parlarci del cibo e degli Organismi Geneticamente Modificati, del sapere e del progresso nel campo delle coltivazioni.

L’autore, vissuto da giovane a Caserta e poi trasferitosi a Roma, con la sua prima opera “la città distratta” ha vinto il premio Sandro Onofri per il reportage narrativo e, con la successiva “la manutenzione degli affetti” si è affermato al grande pubblico. Poi, attraverso la collaborazione con le pagine culturali di diversi quotidiani (Corriere della Sera, Sole 24 ore, Il Mattino, Il Messaggero), di riviste (come Limes) e siti internet (Salmone.org) ha avviato un percorso parallelo di approfondimento scientifico che ha trovato approdo in libri come “Scienza e Sentimento”.

Il titolo di quest’ultima opera, “Pane e pace”, è in ricordo dell’agronomo statunitense Premio Nobel Norman Borlaug, il quale, attraverso delle tecniche di ibridazione, riuscì a realizzare taglie di frumento e riso più basse e molto più produttive, contribuendo con questo ad aumentare la produzione ed a sconfiggere la fame.

Nel 1970, la motivazione per l’assegnazione del Nobel per la Pace fu la seguente: “[A colui che] più di ogni altra persona del nostro tempo ha aiutato a dare il pane a un mondo affamato. Noi abbiamo fatto questa scelta nella speranza che provvedendo al pane si darà pace a questo mondo”.

Nel viaggio nel tempo con la famiglia Pascale, di cui è possibile apprezzare le fotografie con suggestione e con un poco di nostalgia (il nonno Antonio, il padre Luigi, l’autore, i suoi figli Brando e Marianna), il tratteggio saliente è l’interpretazione che prima suo padre e poi lo stesso autore hanno dato e danno al lavoro. Tutto ciò sia nel rapporto con i contadini nell’attività ispettiva presso le imprese agricole e sia nel rapporto con l’evoluzione scientifica del proprio tempo storico.

Un misto di buon senso e uso razionale delle risorse, in linea con il progresso scientifico, che nel caso di Antonio Pascale, si sostanzia sullo studio e sull’approfondimento di tecniche – come il DNA ricombinante – attraverso il confronto tra studiosi del settore (peer review) che puntano ad accrescere e condividere le conoscenze.

Così, tramite quei paragoni che si rincorrono nel tempo con i metodi (arcaici), la fatica (tanta) e i raccolti (scarsi) ottenuti nei campi dal nonno Antonio, si giunge via via a raccontare degli ogm, ovvero di quelle tecniche che, tramite lo spostamento o mutazione di piccole quantità di geni, si possono effettuare molti esperimenti e verificare selettivamente, quindi, le modificazioni che intervengono.

Tutto ciò per arrivare a soluzioni che tendono ad aumentare la produzione della coltivazione per ettaro; a ridurre il tasso di perdita delle piante coltivate; a garantire che non siano alterate le caratteristiche salienti.

Ma, nell’incrocio tra storia personale e la storia dell’evoluzione biotecnologica, Antonio Pascale non può non fare riferimento anche a quelle resistenze culturali e politiche che impediscono una ricerca e una diffusione degli ogm.

Con questo libro, pubblicato solo poche settimane fa, Pascale vuole mostrare anche come il compito dei letterati non sia quello di dare voce soprattutto ad un sapere nostalgico (citando in questo caso l’esempio del racconto “Gennariello” di Pasolini), ma di provare ad accompagnare l’uomo verso un progresso scientifico non dogmatico.

E questo l’autore lo fa raccontando esperienze e successi di uomini caparbi e meritori.

Conosciamo in questo modo le storie di Nazareno Strampelli e Francesco Ingegnoli nella prima metà del ‘900 per gli incroci sul grano; quella già citata di Berlung nella seconda metà del ‘900; per arrivare ai giorni nostri con Francesco Sala e la complessità (anche di natura politica) di mettere in atto il salvataggio dei meli in Valle d’Aosta tramite tecniche che tendessero ad eliminare un coleottero che si cibava delle radici dell’albero.

Ma, le difficoltà della ricerca sugli ogm che in Italia s’incontrano, Pascale le imputa a un deficit culturale che così evidenzia: “E’ solo perché in questi anni alcuni inquinanti culturali, sapere nostalgico (“eh! I vecchi tempi”), cattiva informazione, visioni bucoliche e mistiche della terra, semplificazioni coatte, incompetenza diffusa hanno creato opinioni malsane nei cittadini”.

E rafforza questo concetto citando l’esperienza fatta da quei ragazzi (in questo caso i suoi figli Brando e Marianna) che si trovano a fare il pendolo nelle loro quotidianità tra l’esaltazione delle ultratecnologiche batterie dei cellulari che consentono un notevole risparmio energetico ed un nozionismo nelle docenze scolastiche che, quando parla di coltivazione dei cibi, tende ad esaltare l’assenza di diserbanti, pesticidi, concimi di sintesi….né più e né meno come ai tempi del bisnonno Antonio.

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ZENIT Staff

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