di Antonio Scacco
ROMA, sabato, 16 giugno 2012 (ZENIT.org).- 1888. Edward Bellamy, con il suo Guardando indietro: 2000-1887 (Looking Backward), preconizza per l’umanità un avvenire di pace, di fratellanza, di uguaglianza, di benessere e di felicità. Nella Boston del 2000, anno in cui il protagonista del romanzo, Julian West, si risveglia dopo aver dormito per circa 113 anni per effetto di una cura contro l’insonnia che gli ha praticato un esperto di mesmerismo, non esistono più aziende, imprese o industrie private. Lo Stato, come un enorme Leviatano, ha fagocitato tutti i vari trusts ed è diventato l’unico datore di lavoro. Non esiste più la disoccupazione, né c’è la lotta di classe. I crimini sono pressoché scomparsi, poiché il denaro è stato eliminato ed è stato sostituito dalla carta di credito, il cui importo è uguale per tutti. Non ha perciò senso rubare dal momento che non si può accrescere d’un centesimo il proprio peculio.
1981. Dopo meno di cento anni, il futuro non ha più, ahimé!, le sembianze rosee evocate da Bellamy, ma è una lugubre visione di decadenza fisica e morale. Ci riferiamo al romanzo Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird) di Walter Tevis, scrittore conosciuto soprattutto per la versione cinematografica di una sua precedente opera, L’uomo che cadde sulla Terra (The Man who Fall to Earth, 1963), che ebbe come interprete il cantante rock David Bowie. Accenniamo alla trama.
L’umanità del XXV secolo, periodo in cui si svolge la vicenda, ha scelto come norma di comportamento sociale l’incomunicabilità tra gli individui, che ipocritamente è chiamata Privacy o Cortesia Obbligatoria. Comandi ipnotici del tipo «non chiedere: rilassati», induco-no la gente a non porsi domande, a non pensare, a non fare scelte autonome. La gioventù viene allevata in centri di raccolta, i Dormitori, dove vengono condizionati a praticare «il sesso svelto», a fare uso di droghe per spegnere ogni velleità di ribellione, a evitare di guardare in faccia il proprio interlocutore per non infrangere la norma dell’Interiorità. I libri sono messi al bando e, poiché è reato imparare a leggere e a scrivere, l’analfabetismo domina sovrano. I suicidi singoli e di gruppo non si contano e le nascite diminuiscono fino a sparire del tutto.
Come si è giunti ad una simile società? Ce lo dice il protagonista del romanzo, Paul Bentley: «[…] tutte le mie nozioni di decenza erano state programmate nella mia mente e nel mio comportamento da computer e robot che a loro volta erano stati programmati da alcuni ingegneri sociali o tiranni o pazzi morti da moltissimo tempo […] Dovevano aver giudicato se stessi uomini seri, impegnati […] e si passavano memorandum attraverso le scrivanie cariche di scartoffie e di libri, pianificando il mondo ideale per l’Homo sapiens, un mondo senza miseria, malattie, dissenso, neurosi e sofferenze». Previsioni che, come abbiamo visto, non si realizzano affatto nella società descritta in Solo il mimo canta al limitare del bosco. E non poteva essere diversamente. L’uomo, quando rinuncia alla propria ricchezza interiore e decide di vivere solo a livello animalesco e vegetativo, alla fine diventa preda di sentimenti di impotenza, frustrazione, inutilità, disperazione e non vede altra via davanti a sé che quella dell’autodistruzione.
Se volessimo tentare un paragone tra i due romanzi summenzionati e l’inizio di questo nuovo millennio, dovremmo concludere che l’attuale nostra società si avvicina più all’antiutopia di Tevis che non all’utopia di Bellamy. E ciò per varie ragioni: l’inquinamento, le catastrofi nucleari, il terrorismo, la droga, la violenza ai bambini, la criminalità… A queste piaghe bisogna aggiungerne un’altra che in questi giorni ha acceso un animato dibattito nel mondo sindacale, imprenditoriale e politico: la disoccupazione tecnologica.
Il dramma inizia alla fine del XVIII secolo, quando irrompe, sulla scena della storia umana, la prima rivoluzione industriale. Fino ad allora, l’agricoltura assorbiva quasi interamente la forza lavoro. Poi, verso la metà dell’Ottocento, con l’invenzione della mietitrice, dell’aratro d’acciaio, del trattore, molti contadini non ebbero più lavoro. Lo trovarono nelle nascenti industrie, ma anche qui ben presto furono espulsi per effetto delle innovazioni tecnolo-giche. L’ancora di salvezza per una moltitudine di disoccupati fu il terziario. Ma, come accadde nell’industria, anche nel settore dei “servizi” ciò che il progresso dà con una mano, con l’altra toglie. Questa volta, la responsabilità di avere ingrossato di milioni di lavoratori l’esercito dei disoccupati, è da addebitarsi all’avvento delle tecnologie della comunicazione e dell’informatica. Mentre le prime innovazioni tecnologiche tendevano a sostituire l’aspetto puramente fisico della forza lavoro, adesso l’avvento del computer e delle macchine pensanti tendono a sostituire la mente umana. La prospettiva è quella di una società futura in cui il processo produttivo è interamente automatizzato. Profetico, in questo senso, era stato il romanzo di Kurt Vonnegut, Distruggete le macchine (Player Piano, 1952), dove il lavoro è interamente eseguito dalle maccine e all’uomo non rimane che dedicarsi ad attività puramente fittizie.
Ma la fine del lavoro può avere conseguenze negative per la convivenza umana. La prima è la polarizzazione, come scrive Jeremy Rifkin in La fine del lavoro (The End of Work, 1995), della «popolazione mondiale in due forze inconciliabili e potenzialmente conflittuali: una élite cosmopolita di “analisti di simboli” che controllano le tecnologie e le forze di produzione; e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso, con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un’occupazione significativa». La seconda conseguenza, ancora più grave, è la crescita, a causa della disoccupazione, del crimine e della violenza nel mondo. La soluzione di arginare il fenomeno della disoccupazione ricorrendo alla riduzione dell’orario lavorativo, è, come ognuno vede, solo un palliativo. Occorre, invece, agire sulla causa prima del problema, le cui radici affondano nello sviluppo a velocità esponenziale della scienza e della tecnologia. Occorre, anzitutto, superare la concezione positivistica e neo-positivista della scienza, che inevitabilmente conduce a sistemi di governo tecnocratici e accentratori.
La scienza ha eminentemente una valore religioso: essa, parafrasando l’espressione di papa Leone XIII, umanizza la materia, la impregna di spirito. Lo scienziato, in sostanza, non solo continua, attraverso le sue scoperte, l’opera del Creatore (fase discendente del piano divino); ma anche e soprattutto collabora all’opera di Cristo per il ritorno di tutte le cose all’Omega, a Dio (fase ascendente). La materia ha già in sé l’impronta dello Spirito divino. La famosa riflessione di Einstein: «Si può dire che ciò che vi è di eternamente incomprensibile nell’universo, è come esso sia intelligibile», altro non significa che questo. Ora, la materia ha la possibilità di manifestare maggiormente l’impronta del suo Creatore a condizione di ricevere una nuova “impregnazione spirituale”. Questa impregnazione spiri-tuale è quella di cui l’uomo è l’autore attraverso la scienza e la tecnologia.
La fede, dunque, non è in contrasto con la scienza, la quale oggi più che mai ha bisogno di quel supplemento d’anima che Bergson reclamava. La scienza può veramente essere al servizio dell’uomo e risolvere i problemi che al presente ci angustiano (disoccupazione, in primis</em>), solo se non rimane chiusa nella propria dialettica. Per non condurre l’uomo alla rovina – scrive Jean-Marie Aubert in Il giovane e la scienza (Recherche scientifique et foi chrétienne, 1962) – «la scienza non basta; è necessario un fermento d’un altro ordine, e nello stesso tempo che sia meglio riconosciuto il vero polo di attra
zione verso cui tende la sua ascesa. Solo il Cristianesimo, per il suo carattere universalistico, per l’ampiezza delle sue esigenze e soprattutto per il dinamismo soprannaturale che possiede, può offrire all’uomo moderno un soccorso efficace».