di Luca Marcolivio
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 13 giugno 2012 (ZENIT.org) – Anche oggi, in occasione dell’Udienza generale, papa Benedetto XVI si è soffermato sulla preghiera nelle Lettere di San Paolo. Dopo aver fatto una breve sosta in piazza Santa Marta per la presentazione dei lavori di restauro della Basilica Vaticana, il Santo Padre si è recato in Aula Paolo VI per la catechesi, iniziata poco dopo le 10.30.
Il Papa ha esordito ricordando che “l’incontro quotidiano con il Signore e la frequenza ai Sacramenti permettono di aprire la nostra mente e il nostro cuore alla sua presenza, alle sue parole, alla sua azione”.
Riprendendo la Seconda Lettera ai Corinzi, Benedetto XVI ha posto in evidenza come l’intensissimo apostolato di San Paolo sia segnato in primo luogo da un profondo dialogo con il Signore, “un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi, di contemplazione profonda (cfr. 2Cor 12,1)”.
Al punto che lo stesso Paolo, parlando di se stesso in terza persona, narra del suo “rapimento” mistico in paradiso (cfr. 2Cor 12,2). “La contemplazione – ha spiegato il Papa – è così profonda e intensa che l’Apostolo non ricorda neppure i contenuti della rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione (cfr. Fil 3,12)”.
Di seguito l’Apostolo delle Genti riferisce del suo tormento della carne, la “spina” (2Cor 12,7) che simboleggia l’attaccamento alle cose di quaggiù e l’amor proprio di cui Paolo è consapevole e per il quale “supplica con forza il Risorto di essere liberato dall’inviato del Maligno”.
Tre volte l’Apostolo supplica il Signore e il Risorto gli risponde con la seguente frase “chiara e rassicurante”: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Paolo prende quasi alla lettera queste parole, arrivando a vantarsi delle sue debolezze e a compiacersi degli oltraggi e delle persecuzioni (2Cor 12,9b-10). Non si vanta delle sue azioni “ma dell’attività di Cristo che agisce proprio nella sua debolezza”, ha osservato il Pontefice.
L’Apostolo non specifica in cosa consista la “spina” delle sue debolezze e della sua imperfezione umana. Si limita a dire che è proprio “nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza”, che “si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza”.
Sebbene umanamente, Paolo desideri di essere liberato dal tormento della “spina”, Dio non glielo toglie, per poterlo aiutare a “maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni”.
“In realtà – ha proseguito il Papa – umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza dell’essere amato da Dio, appare leggero, sapendo che la quantità della gloria sarà smisurata”. Dio, quindi, “opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico”.
Prendere atto della potenza di Dio che annulla la debolezza umana, è per Paolo, la seconda rivelazione divina, quasi un secondo incontro con il Signore, dopo la travolgente conversione sulla via di Damasco.
Per descrivere Dio che viene ad abitare la debolezza umana, l’Apostolo usa il termine greco “episkenoo” (letteralmente: “porre la propria tenda”). “Il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione”, ha commentato Benedetto XVI.
Un’immagine che riporta alla mente la Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor, dove Pietro dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mc 9,5).
La contemplazione del Signore è un atto che risulta, allo stesso tempo, “affascinante e tremendo”. Affascinante perché “ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore”, ha spiegato il Santo Padre.
Dio, però, è anche “tremendo”, in quanto “mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne”.
Per usare le parole del teologo protestante, Nobel per la Pace, Albert Schweitzer, San Paolo è “nient’altro che un mistico”, ovvero “un uomo veramente innamorato di Cristo e così unito a Lui, da poter dire: Cristo vive in me”, ha detto il Papa.
Paolo, tuttavia, nel suo misticismo, non si allontana dalla realtà ma, al contrario, trova “la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo”.
Anche nell’aridità spirituale e nell’apparente distacco da Dio, con San Paolo, siamo “convinti che tutto possiamo in Colui che ci dà la forza (cfr Fil 4,13)”. Un po’ come avvenne alla beata Madre Teresa di Calcutta che “nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura”.
Il Santo Padre ha quindi concluso la catechesi, ricordando che la contemplazione di Cristo ci rende “ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore”.