di Carmine Tabarro
Comunità Cattolica Shalom
ROMA, domenica, 10 giugno 2012 (ZENIT.org).- La cultura del dono come terza alternativa fra altruismo ed egoismo. L’egoismo è un essere per sé, l’altruismo è un essere per l’altro. Il dono appartiene alla dimensione intermedia dell’essere per e con l’altro. La cultura del dono è tipica di Gesù Cristo e del cristianesimo, penso al capitolo 2 e 4 degli Atti degli Apostoli, all’Ora et Labora di Benedetto, a Chiara e Francesco, alla scuola economica francescana, alle reducciones dei gesuiti solo per fare alcuni nomi.
La cultura del dono è stata ripresa e sviluppata in questi termini, fra Ottocento e Novecento dall’antropologo e sociologo francese di origine ebraica Marcel Mauss. Dal suo pensiero ha preso vita l’associazione Mauss (acronimo di Movimento antiutilitarista in scienze sociali) che unisce studiosi che si rifanno al maestro transalpino.
In ambito cattolico chi ha ripreso questa cultura è stata Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. In maniera profetica vedeva come il modo per poter contribuire ad un mondo più giusto si trovava proprio nella cultura del dono, della reciprocità non strumentale.
La cultura dell’utilitarismo accusa la cultura del dono di perseguire sempre un atto egoistico perchè donando, l’uomo soddisfa la sua sete di fare del bene.
In realtà la riflessione sul dono è molto più complessa di quello che la cultura utilitaristica o del capitalismo compassionevole vorrebbe indicare come unica verità.
Il dono non parte solo da un atteggiamento di bontà, o di buonismo, ma da una forte apertura verso l’altro, dal desiderio di relazionarsi con l’altro. E’ agape con e per l’altro.
Nel dono c’è ontologicamente il desiderio di appartenenza, di legame per una più piena realizzazione del sé che si realizza se in relazione con l’altro.
Nel dono non vi è l’egoismo di chi pensa solo ai propri interessi, ma nemmeno il sacrificio o l’egoismo del sé tipico di qualche atteggiamento dell’altruismo.
Le persone che vivono della cultura del dono la declinano come un bisogno esistenziale per-con l’altro.
Attenzione non si tratta di uno scambio simmetrico. In altre parole chi dona non si attende un ritorno. Difatti la cultura del dono non funziona come avviene nello scambio economico con un dare e un avere.
Dono qualcosa di me perché sento il bisogno di legarmi con l’altro. Sento il legame come bene in sé, come il fine per costruire una società ricca in termini di rapporti umani, perché io mi considero solo in relazione con l’altro.
Il dramma della società postmoderna sta nell’avere perso il Dio-Trinità (che è koinonia perfetta e dono perfetto) e nell’avere perso l’uomo umanizzato; ha prevalso la tendenza a preferire l’uomo animale spinto da istinti darwinistici, (cioè soppressione del più debole ndr). La cultura del dono se esercitata fa crescere nella persona una diversa consapevolezza del sé, rispetto alla cultura dello scambio e della competizione individualista tipica della cultura predominante.
La Riforma Protestante, e l’epoca dei lumi, hanno favorito l’individualismo e l’autosufficienza, ci consideriamo Dio di noi stessi in nome dell’utile e del profitto. Abbiamo accettato di sacrificare i legami familiari, amicali creando una società e relazioni fondate sull’utilitarismo e le conseguenze pratiche e profonde che le nostre società stanno pagando sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo dato vita ad un mostro che qualcuno ha definito ‘aborto antropologico’.
Per parlare di dono è necessario che le persone siano state educate alle relazione non strumentali, cioè capaci di sentire e vivere il vincolo di relazioni fin dalla nascita: qualcuno (Dio, i nostri genitori, le persone che abbiamo incontrato nella nostra vita) ha reso possibile la nostra vita, la nostra crescita, rende possibile il nostro lavoro, il nostro matrimonio, la nostra vita di fede ecc. Quindi siamo in “debito” con l’altro in termini relazionali. Ma nella società dominata dall’utilitarismo si tende a negare, a rimuovere questo nostro essere in “debito”, perché siamo impegnati a perseguire il nostro utile e il nostro narcisismo. Questa cultura narcisistica ha fatto a brandelli la coesione sociale, sta privatizzando i nuovi beni comuni (penso alla mappatura e utilizzazione utilitarista e strumentale del genoma umano), abbiamo indebolito ed in alcuni casi reciso i legami umani anche quelli più profondi la famiglia, che è ciò che caratterizza l’umano.
Eppure il dono – essere in-relazione-per-con-l’altro è una esperienza difficile ma che rende l’uomo più umano e felice.
È una cultura umanizzante alla portata di tutti, molto più della cultura dell’ altruismo perché si radica nel bisogno di avere vincoli di reciprocità. E tutti se ne avvantaggiano perché nell’essere insieme è ognuno che si rafforza. Il paradosso è che in questa società individualista il “noi”, cioè “l’essere con e per l’altro” assume, in alcuni casi, valenze negative fatte di comunità fondate sull’esclusione, sulla contrapposizione, sulla discriminazione degli altri.
In questo contesto l’altruismo non è l’unica alternativa all’egoismo. E’ solo il primo passo. C’è una terza dimensione che è quella del dono, che nasce dal riconoscere l’esistenza dell’altro e può assumere le forme di compassione, amore, gratuità, libertà, giustizia. Il dono nasce dalla consapevolezza di essere stati donati, di essere di origine creaturale. Nel dono non c’è pretesa di restituzione. Per questo dico che è asimmetrico. Il dono costruisce nella libertà le relazioni non strumentali che sono il cemento armato di qualsiasi società civile. Con il dono si alimenta un circolo virtuoso: non pretendo niente nell’immediato, ma so che nell’economia della salvezza tutto può essermi restituito.
“Dai e ti sarà dato” afferma il Vangelo.
In questo senso il dono presuppone la sua accettazione. Noi rimaniamo spiazzati, stupiti, dinanzi ad un dono responsabile, siamo abituati ad utilizzare, ad approfittarci della debolezza dell’altro. Ma una persona che ci dona in maniera libera e responsabile provoca in noi un terremoto, ci rende nudi, siamo refrattari alla gratitudine, resistenti alla gratuità, non vogliamo essere grati.
Concludendo dobbiamo riportare a scuola, nelle famiglie, in tutti i corpi intermedi la cultura del dono.
Ma la fonte principale rimane la famiglia, ed in particolare il rapporto con la madre e con il padre. È lì che si instaura il rapporto di cura e se ne capisce l’importanza. La cura è essenziale al dono. La cura è il dono.
Mi viene in mente don Milani e il suo “I care”.
La cura a partire da chi mi è vicino per poi aprirsi al mondo per riconquistare una nuova dimensione antropologica e tutto cambierebbe radicalmente.