ROMA, sabato, 9 giugno 2012 (ZENIT.org).– Riportiamo l’introduzione e uno stralcio del libro “L’intelligenza della fede credere per capire sapere per credere” scritto da padre Giuseppe Barzaghi e pubblicato dalle Edizione Studio Domenicano (ESD) di Bologna.
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di Giuseppe Barzaghi
Svanire, sfumare…
Quando usiamo queste parole ci troviamo sempre di fronte a qualcosa che se ne va per non tornare più. Qualcosa di così leggero e improprio da essere ritenuto perciò non essenziale. Non importante.
Svanire dice il precipitare di ciò che è vano. E vano indica la mancanza, il vuoto, il vacuo, così come la vastità, che è poi il deserto. Niente di niente.
E così anche sfumare dice la graduale ma inesorabile diminuzione di qualcosa. È come un esalare, un tirar fuori l’ultimo alito, l’ultimo respiro, uno spirare.
Più nulla.Ma c’è un modo proprio dell’anima che salva dall’annientamento perché raccoglie tutto e mette insieme.
Quando si ama si è attenti a tutto, anche alle sfumature. Anche i sospiri sono essenziali. Nell’amore anche ciò che svanisce o sfuma è prezioso. Anche un frammento è tutto. Tutto di tutto.
L’amore è meditativo. Perché la meditazione è l’amore di un occhio periscopico e endoscopico.
Saper guardare tutto inmodo integrale e profondo.Guardarsi attorno, circoscrivere ogni cosa con lo sguardo e fissare il perno delle considerazioni su ogni cosa capiti o cada nello sguardo. Con il rispetto del frammento come se fosse il fondamento.
Se uno ha uno sguardo periscopico si comporta come il cerchio: ogni suo punto è inizio, medio e fine. E proprio per questo vede tutto in un frammento.
Nella cura di un frammento, come se fosse il tutto, si affaccia la genialità e nella cura del tutto, come se fosse un povero frammento, si affaccia la pazienza. «Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Questa è la meditazione: una dialettica contemplativa! Nel cristianesimo, l’esercizio meditativo è legato all’essenziale.
È il Verbum abbreviatum, come sogliono dire i Padri della Chiesa. Dio che si fa uomo.Ma un discorso abbreviato che si fa immensa intuizione divina: perché l’uomo diviene Dio. Saper giocare con le parole è la letizia della mente.
La commozione è sapiente.
Quando si è di fronte al dolore massimo, quello innocente, e si sa che non si può trovare un perché ultimo, il nostro commuoverci, il piangere a dirotto, è la pietà assoluta che si affaccia nella nostra anima.
Quando non si capisce niente e si deve accettare una realtà così com’è perché è così, l’unico sbocco è l’affidamento a Dio: stiamo postulando il suo sguardo ela sua accoglienza che ci capisce nel nostro non capire.
Quando ci si commuove e si è incapaci di tutto si prova la vera intensità dell’amore. Di fronte all’intensità della commozione, tutto il resto è una farsa.
L’affidamento, l’affidarci, implica che siamo in confusione – altrimenti saremmo capaci di cavarcela da soli –. Affidandoci a Dio, che è l’ambiente creatore di tutte le cose, cogliamo che tutto è unito e tutto c’entra con tutto, in Dio. Lui lo sa e noi ne sentiamo il sapore nelle nostre lacrime di commozione (l’unica cosa che a volte possiamo fare perché non possiamo aiutare o non lo possiamo più) che lo segnalano.
Non è una questione intellettuale, ma di vera e propria “intelligenza” (lettura intima) divina delle cose. «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio».(2 Cor 1, 3-4).
L’esistenza di Dio è più una persuasione che una convinzione dimostrativa. E di questo sono convinto.
Una dimostrazione porta freddamente ad accettare anche qualcosa che non sta a cuore. Ciò che sta a cuore non ha bisogno di essere dimostrato. Una dimostrazione è inutile o fuori luogo nelle faccende di cuore. Questa è una convinzione dimostrativa, perché non è faccenda di cuore!
Ma l’esistenza di Dio è una faccenda principalmente di cuore. È come un’elemosina che il nostro spirito chiede a ciò che chiamiamo Destino, ma che in realtà è l’altro nome di Dio. È l’elemosina della consolazione. E il nostro spirito è il mendicante della consolazione! Siamo fatti per essere consolati. «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (Mt 11,28), dice la voce del Destino, cioè Dio.
Per questo sentiamo la consolazione come la nostra linfa vitale. Più del pane («non di solo pane vive l’uomo…»). Per tutta la sofferenza innocente che c’è nel mondo, noi postuliamo la consolazione. Basta guardare uno sguardo sofferente nell’innocenza per esserne persuasi.
Forse qui c’è qualcosa di simile al senso dimostrativo: il postulare! È bello pensare che un postulato dimostrativo si affacci solo nella mente di un postulante! E in questo modo anche la dimostrazione è riportata alla profondità dello spirito mendicante!Ne sono persuaso.
Lo si avverte nella compassione che si prova leggendo questo postulato negli occhi della sofferenza innocente dei bambini, nello sguardo di terrore smarrito di un perseguitato, che sembra urlare un affidamento, un altrove di giustizia. Lì si è persuasi che questo altrove c’è! Vogliamo la consolazione divina.
E al solito presuntuoso che obiettasse dall’alto del suo pseudo-intellettualismo che questi sono discorsi “consolatori” e irreali? Si risponde che anche la sua obiezione, così cattiva, è per lui la consolazione: volere riportare vittoria su chi la pensa diversamente e sconfiggerlo. Per questo insiste: si consola criticando la nostra ricerca di consolazione.
Se noi lo sconfiggessimo, non se ne andrebbe forse sconsolato? Dunque la sua ricerca di vittoria o della sconfitta altrui è la sua ricerca di consolazione. Se l’obiezione di fronte allo sguardo sofferente innocente non postulasse con esso la consolazione, ma lo deridesse… chi la sollevasse sarebbe capace di infliggere quella sofferenza e ne sarebbe il responsabile!
Il che non consola me, ma sconfigge lui! Ne sono persuaso e adesso anche sempre più convinto.