di Salvatore Cernuzio
ROMA, martedì, 5 giugno 2012 (ZENIT.org) – Un salotto privato dove due amici si incontrano per raccontare i propri ricordi, le proprie opinioni, il proprio mondo interiore, allargato a più di 600 persone che non attendevano altro che sentirsi anch’essi partecipi di questo dialogo a dir poco straordinario.
È questa l’atmosfera che si respirava, ieri sera, in Santa Maria in Ara Coeli, la chiesa romana sul Campidoglio, divenuta splendida cornice dell’incontro In dialogo: fede e musica che ha visto il confronto tra due protagonisti di grande spessore: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, ed il maestro Riccardo Muti, “il” direttore d’orchestra di fama internazionale.
Due personaggi noti e apprezzati dal grande pubblico, legati da una profonda amicizia che traspariva dal tono delle parole: da una parte, il colto cardinale, esegeta biblico, fervido appassionato di musica, che dell’amore per l’arte ne ha fatto l’elemento caratteristico del suo ministero. Dall’altra, il maestro che, sceso dal podio di direttore, si è trasformato in un piacevole interlocutore pronto a deliziare il pubblico, per una volta non con la bacchetta, ma raccontando, con una spontanea vèrve ironica, i ricordi di una vita vissuta “a suon di musica”.
L’evento ha costituito l’ultima tappa di quella “via della bellezza” tracciata, da dicembre, dal progetto “Una Porta verso l’Infinito”, promosso dall’Ufficio Comunicazioni Sociali del Vicariato di Roma, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Cultura.
Un percorso che dopo aver regalato al pubblico romano numerose occasioni per vivere l’arte nella dimensione della fede, si è concluso ieri con l’espressione artistica che, nei secoli, ha maggiormente toccato le corde del cuore dell’uomo: la musica.
Musica che è “l’esperanto celeste” secondo il cardinale Ravasi, ovvero quel linguaggio universale che Dio ha voluto donare ai suoi figli, tanto che “se noi continueremo a commettere ingiustizie, ci lascerà senza la musica” come scriveva Cassiodoro nelle Institutiones.
Con questa interessante metafora, riferita alla società odierna, il porporato ha, infatti, voluto porre l’accento sul potere della musica, “scala” che unisce cielo e terra. Il riferimento è andato, infatti, ad Elie Wiesel, scrittore ungherese che, spiegando la musica attraverso la visione onirica di Giacobbe di una scala dalla quale salgono e scendono angeli, scrisse “gli angeli si sono dimenticati di ritirare quella scala: è la scala musicale, capace di unire cielo e terra”.
Non solo l’unione tra celeste e terrestre, ma anche tra cristiani e pagani, atei e credenti: l’arte musicale può fare anche questo. Basti pensare all’ateo Cioran che dopo aver ascoltato Bach disse “purtroppo Dio deve esistere”.
Proprio sulla questione della musica come punto d’incontro tra chi crede e chi no si sono soffermati a lungo i due protagonisti nella conversazione, moderata dal direttore del Messaggero, Mario Orfeo. In particolare, l’attenzione si è concentrata sul caso Verdi, ovvero sull’interrogativo, da sempre dibattuto da storici e musicologi, se il compositore fosse ateo o credente.
“È assurdo che abbiano chiamato il mio Verdi ateo o agnostico!” ha dichiarato Muti in proposito, senza lasciare spazio ad alcun dubbio. “Come si può considerare Verdi tale, dopo aver ascoltato i finali del Don Carlos, del Rigoletto, della Forza del destino? – ha proseguito – tutte opere che tendono a Dio, rivolte ad un cielo azzurro di speranza”.
“Come può una persona che non crede scrivere un finale in cui si canta Libera me Domine da morte aeterna in die ille?” ha insistito il maestro, interrogandosi su “come certi direttori contemporanei, che si professano atei, possano interpretare un simile momento di musica senza porsi una domanda”.
Il problema è “nella capacità della musica di farci fare esperienza di Dio” ha aggiunto Muti; un problema che, secondo il cardinale Ravasi, spesso è acuito dalla musica contemporanea che non permette di “far aprire le orecchie alla Parola divina, ed è incapace di far salire a Dio un’opera come il Te Deum di Verdi”.
In tal senso, ha sottolineato il porporato, è realmente necessaria una educazione che “costruisca una nuova sensibilità musicale”, partendo non solo dai giovani, ma proprio dai seminari in modo che “i preti di domani non si accontentino – per presunte esigenze di comunicazione e comprensione – di quella musica semplice che diventa il più delle volte banale”. L’esortazione è, quindi, a far sì che nelle chiese torni una musica “realmente capace di essere strumento per pregare”.
Se per il cardinale Ravasi la musica è, quindi, “l’altro volto della parola”, per Muti è “rapimento”. “La vera musica non è quella che si capisce, ma quella che rapisce” ha affermato infatti il direttore, richiamando Dante quando, nel XIV canto del Paradiso, di fronte agli spiriti beati disposti in forma di croce, sente una melode che, seppur incomprensibile, lo rapisce totalmente.
Un’affermazione che forse si può estendere non solo alla musica in sé, ma anche a tutto ciò che la riguarda. Lo ha dimostrato la reazione del pubblico di Santa Maria in Ara Coeli, che, nonostante le quasi due ore trascorse, era ancora lì, immobile, disposto a lasciarsi “rapire” da altre splendide parole.