ROMA, domenica, 3 giugno 2012 (ZENIT.org).- Ai fedeli che hanno partecipato alle messe nelle chiese di Bologna è stata distribuita oggi la lettera scritta dal cardinale Carlo Caffarra alle popolazioni colpite dal sisma.
Il testo del documento che riportiamo è stato tratto da L’Osservatore Romano e pubblicato anche dal settimanale Tempi.
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Carissimi fedeli, carissimi sacerdoti, carissimi religiose e religiosi, desidero partecipare alcune riflessioni a voi che siete stati colpiti dall’immane tragedia del terremoto. Spero che questi miei pensieri siano di consolazione e di conforto nel grande dolore che state vivendo. Sono sicuro che riflettendo su quanto accaduto siete rimasti colpiti e come storditi dalla constatazione della fragilità di tutto il nostro mondo. In pochi minuti avete visto coi vostri occhi secoli di storia e di lavoro spazzati via. Ma soprattutto avete sperimentato quanto sia fragile, breve, fugace la nostra vita.
In questi giorni sicuramente siete stati investiti da domande drammatiche: perché è accaduto? I sismologi, per quanto sanno, possono darci le ragioni geofisiche. Ma la vostra domanda ha un altro significato: quale senso hanno i nostri giorni di fatica e di dolore? Ma, alla fine, un senso ce l’hanno? È questa domanda che, sono sicuro, attraversa il vostro cuore. Mentre mi aggiravo per le vostre case; mentre parlavo con voi e vedevo non raramente i vostri occhi pieni di lacrime, risuonavano dentro al mio cuore le parole che il Signore ci ha detto: «Chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla. È stabile per sempre» (Salmi, 125 [124], 1). Ma mi dicevo: anche la terra però vacilla ed è instabile; anche le montagne! «E si scuotono le fondamenta della terra (…) Barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come una tenda» (Isaia, 24, 18.20). E allora? C’è una parola che il Signore ci ha detto una volta per sempre attraverso il profeta Isaia: «Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace (…) con affetto perenne ho avuto pietà di te» (Isaia, 54, 10.8). È questa la risposta alle vostre domande: la bontà, l’affetto, la tenerezza del Signore. Non dubitate di essa, e sarete salvi. «Colui che cammina (ancora) nelle tenebre, senza avere luce, speri nel nome del Signore e si appoggi al suo Dio» (Isaia, 50, 10).
Vi devo confidare che vedendo i vostri luoghi devastati, mi è spesso tornata in mente una pagina del Vangelo, nella quale si riferisce che una torre del tempio crollando aveva ucciso diciotto persone. Sentite il commento di Gesù: «Quei diciotto sui quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Luca, 13, 4-5). Carissimi, queste parole di Gesù aiutano tutti senza eccezione, non solo voi, a una comprensione profonda di quanto è accaduto. Guardiamoci tutti dal pensare che ci sia una relazione diretta e precisa tra calamità e colpa. Ciò risulta anche da un altro episodio del Vangelo narrato da Giovanni (cfr. Giovanni, 9,3). Ma l’immane tragedia che ha colpito voi, è un invito rivolto a tutti, senza eccezioni, a convertirci.
Ma quale più precisamente è il contenuto di questo invito rivoltoci con un linguaggio così drammatico? Un primo contenuto è il seguente: non perdiamo mai la coscienza della nostra fragile condizione di creature. La cultura in cui viviamo ha fatto di tutto per oscurare questa consapevolezza. Chi vive in questa oscurità, venga nelle vostre terre; si fermi un istante a guardare quelle rovine e non farà fatica a capire che chi ha insegnato all’uomo a considerare se stesso padrone di se stesso, lo ha tragicamente ingannato. Mi vengono sulle labbra le parole del poeta: «E la possanza / qui con giusta misura / anco estimar potrà dell’uman seme, / cui la dura nutrice, ov’ei men teme / con lieve moto in un momento annulla / in parte, e può con moti / poco men lievi ancor subitamente / annichilare in tutto». Un secondo contenuto è il seguente: la grave tragedia che vi ha colpito invita tutti, senza eccezione, al sapiente discernimento fra i beni che passano e i beni che restano e che nessun terremoto può distruggere. Venendo tra voi, ho visto tante espressioni di bontà reciproca, di aiuto che l’uno offre all’altro, di comprensione vicendevole, di preoccupazione per le sorti dei più deboli: bambini, anziani, ammalati. In una parola: la carità si è rinvigorita. Avete già compreso ciò che vale assolutamente e ciò che vale solo relativamente. È un vero cambiamento nei vostri criteri di valutazione, la conversione cui siamo invitati. Un terzo contenuto, ed è il più importante, è il seguente: ritorniamo al Signore con profondità di fede, e «non (…) chiameremo più dio nostro il lavoro delle nostre mani» (Osea, 14, 4).
Visitando i vostri luoghi sono rimasto molto impressionato dal fatto che gli edifici più colpiti sono le chiese e i municipi. Sicuramente geologi e ingegneri possono spiegarci, almeno in parte, questo fatto. Ma credo che possiamo anche fare al riguardo alcune riflessioni. I due edifici sono i principali simboli della vostra comunità. È in essi che voi vi riconoscete come appartenenti alla comunità di fede e alla comunità civile. Sono i due luoghi in cui l’uomo esprime i suoi due desideri più propriamente umani: cercare il volto di Dio; vivere in una società giusta. Forse nel fatto che il sisma ha soprattutto colpito questi due luoghi, è nascosto un preciso invito rivolto a tutti noi, a tutti ripeto, a ripensare le ragioni che ci fanno convivere nella stessa città? A riflettere sulla qualità della nostra appartenenza alla Chiesa? Carissimi, quando ho visto municipi letteralmente sventrati o crollati non ho potuto non pensare: queste immagini ci dicono che anche la nostra convivenza municipale, nazionale ed europea sono state “sventrate” dal sisma del nostro individualismo utilitarista? Carissimi, quando ho visto le chiese crollate o inagibili, ho pensato al grido profetico del nostro Santo Padre Benedetto XVI che continua a dirci: la crisi della Chiesa in Europa è una crisi di fede. Una crisi così profonda che rischia di far «crollare» la Chiesa in Occidente. Il vostro coraggio, la dedizione eroica dei vostri sindaci, la testimonianza commovente di voi sacerdoti, veri pastori che condividete ogni sofferenza del vostro popolo, sono un segno precursore ed esemplare. Il segno che tutti siamo chiamati a ricostruire vere comunità civili che non si riducano a essere coesistenze di egoismi opposti; a riscoprire, durante l’imminente Anno della fede, o a riaccogliere il tesoro incomparabile della fede.
Vi dobbiamo infine molta gratitudine. Ci state facendo in questi giorni un dono preziosissimo: il dono della vostra sofferenza, la quale nella visione cristiana è la linfa della vita della Chiesa. L’impegno nostro ora è di non tralasciare nulla per aiutarvi a riprendere la vita: il lavoro in primo luogo; la scuola per i vostri bambini; il rientro nelle vostre case, dove vivere una normale vita famigliare.
Carissimi, quanto sono imperscrutabili i giudizi di Dio e inaccessibili le sue decisioni (cfr. Romani, 11, 32)! Ma di una cosa siamo certi: nulla – neppure i terremoti – «potrà mai separarci dall’amore che Dio ci ha dimostrato in Gesù». Il Dio di ogni consolazione vi conforti; i nomi di ciascuno di voi sono scolpiti nel suo cuore; le piante dei vostri paesi sono disegnate sulle sue mani. Non perdetevi dunque d’animo. Vi voglio bene e soffro con voi. Vi benedico.