Contro l'umanesimo "escludente" riaffermare il realismo classico

Una riflessione a firma di Francesco D’Agostino

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di Francesco D’Agostino*

ROMA, domenica, 3 giugno 2012 (ZENIT.org).- L’insistenza con cui Scienza & Vita pone in rapporto la difesa della vita con la difesa della democrazia suscita –è inutile negarlo, anzi è doveroso riconoscerlo- irritazione in tutti coloro che non riescono a trovarsi in consonanza non formale, ma sostanziale con il paradigma della democrazia di cui Scienza & Vita si fa paladina.

Nel Manifesto sul quale siamo chiamati oggi a riflettere la democrazia è correttamente presentata come una concezione politico-sociale e come un ideale etico. Le due dimensioni vanno assolutamente tenute insieme: senza il riferimento a un ideale etico la democrazia diventerebbe mero calcolo di maggioranze elettorali, col grave rischio di avallare quelle dittature della maggioranza di cui si è fortunatamente ripreso consapevolezza in questi ultimi decenni, come di un pericolo immanente nelle società occidentali contemporanee e né più né meno che letale.

Ma quale è lo specifico ideale etico di cui è veicolo la democrazia? La risposta di Scienza & Vita è netta e limpida: si tratta del riconoscimento dei diritti inviolabili di ognuno, indipendentemente da qualsiasi giudizio sulle sue condizioni esistenziali. E’ qui che si profila la linea di frattura tra chi aderisce agli orizzonti di Scienza & Vita e che li combatte. Come costruire, infatti, la tabella (se vogliamo usare questo termine) dei diritti umani? Quali diritti, o quale diritto, porre a suo fondamento? Come dedurre dal diritto o dai diritti gli ulteriori diritti che qualificano la dignità della persona? Scienza & Vita utilizza un argomento di nitida razionalità: “La titolarità dei diritti umani dipende…dall’esistenza in vita di ciascun individuo”; di conseguenza “la tutela della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento degli esseri umani come uguali nei loro diritti”. In altre parole i diritti hanno bisogno di una radice fattuale e tale radice è la vita stessa, intesa come il vivere concreto, sano o malato, fragile o robusto, felice o infelice, dei singoli individui concreti.

Non è difficile mettere in chiaro l’orizzonte nel quale si inserisce questo paradigma: è quello del realismo classico, giunto alla sua definitiva maturazione nella sintesi straordinaria che agli inizi dell’era cristiana si è operata tra pensiero greco-ellenistico e la tradizione vetero e neotestamentaria. Realismo significa in buona sostanza che l’uomo non è né materia, animata dallo spirito, né spirito incarcerato in un corpo, ma unità psico-fisica, destinata a non perdere mai alcunché di se stessa –come annuncia il dogma della resurrezione dei corpi. Il rispetto per la vita umana non si riduce ad un omaggio alla biologia, ma costituisce l’unica via che ci consente di cogliere l’unica dimensione che nell’ immensa complessità della natura possiede un valore intrinseco: la persona. E’ per questo che, nella tradizione occidentale, imbevuta di cristianesimo, la medicina, volta alla cure delle persone, ha avuto uno sviluppo epistemologico assolutamente autonomo, anche se non certo divergente, rispetto a quello della veterinaria, volta alla cure delle vite non personali degli animali. La sofferenza biologica va sempre combattuta e nella lotta contro la sofferenza medici e veterinari possono di certo combattere fianco a fianco; ma mentre l’obiettivo del veterinario è la mera riduzione o la stessa eliminazione del dolore, quello del medico è sempre un obiettivo ulteriore: la lotta contro il dolore e la sua eventuale sconfitta significano per il medico non semplicemente ripristinare un equilibrio biologico nel corpo colpito dalla malattia, ma garantire alla persona malata e guarita la possibilità di riconquistare la pienezza di uno stile personale di vita, che dobbiamo riconoscere che agli animali è precluso –per quanto grande possa essere la nostra affettività nei loro confronti.

Questo paradigma, che abbiamo definito realismo classico, appare oggi ampiamente misconosciuto o addirittura osteggiato. Viviamo in un orizzonte culturale, che è comunemente qualificato come moderno, e che Charles Taylor ha efficacemente denominato come umanesimo esclusivo (esclusivo, o meglio escludente Dio, la metafisica, la legge naturale, la verità…). Questo umanesimo è ostile non solo ad ogni dimensione del religioso, ma osteggia altresì ogni forma di pensiero metafisico, ritenendolo un deprecabile pensiero astratto. Nello stesso tempo, però, e paradossalmente, esso coltiva la massima delle astrazioni, tematizzando l’uomo come soggetto disincarnato. Con questa espressione non intendo dire, ovviamente, che il pensiero moderno non voglia prendere sul serio il corpo; anzi, sotto molti profili, la modernità è rigidamente materialistica, tanto da assumere di fatto il motto dello Zarathustra di Nietzsche: “io sono un corpo, in tutto e per tutto e assolutamente niente altro” (Leib bin Ich, ganz un gar, und Nichts außerdem in Also sprach Zarathustra. I. Von den Verächtern des Leibes). Il punto è che il materialismo del moderno si manifesta di fatto come un radicale volontarismo, che induce l’io a cercare la radice della propria identità non nelle modalità reali del suo essere nel mondo, ma nelle modalità –tragicamente astratte- che può assumere il suo desiderio. Si viene così a costruire il mito dell’autenticità come prodotto dell’autodeterminazione, come radice e fondamento dell’identità della persona e come suo diritto umano primario. Nel paradigma dell’umanesimo esclusivo, non è la vita a costituire il diritto fondamentale, ma la volontà di vivere.

Di qui, per fare un unico esempio, ma essenziale, la nuova configurazione ideologica assunta nel nostro tempo dal suicidio. In epoca classica il suicidio era una decisione tragica, indotta dalla violenza altrui o dalla crudeltà degli eventi, ma comunque sempre volta alla tutela della dignità umana. Poi, per secoli, è stato considerato un peccato. Successivamente è divenuto un delitto, quindi una malattia. Oggi viene generalmente considerato come una libera scelta, giuridicamente neutra: l’autouccisione è divenuta il sigillo della libertà e del suo fondamento arbitrario.

Assolutizzando la categoria dell’autodeterminazione, l’individualismo moderno è convinto di aver sottratto la persona a vincoli ancestrali e soffocanti e di averle garantito un’adeguata sovranità su se stessa. C’è un prezzo da pagare per ottenere questo risultato? Naturalmente sì ed è quello di espellere dal consorzio umano, inteso come consorzio di esseri sovrani, il consorzio di coloro che sono capaci di autodeterminarsi, i deboli e i malriusciti: coloro che per primo Nietzsche qualificò come non persone (espressione ripresa ai nostri giorni da Singer e Engelhardt): il nostro amore per gli uomini (sempre ad avviso di Nietzsche) deve indurci a riconoscere che essi devono perire (Anticristo, § 2), in nome del loro stesso interesse.

Non è però su questo punto che vorrei portare la mia riflessione conclusiva. Conosciamo infatti le reazioni degli umanisti esclusivi a queste accuse: esse finirebbero per sacralizzare indebitamente la vita biologica. misconoscendo che è la biografia e non la biologia a dare senso all’esistenza dell’uomo. Che senso può avere –sostengono gli umanisti esclusivi- difendere la vita biologica fino al suo ultimo palpito, quando la vita biografica sia irrecuperabile? E’ un
a posizione, questa, dottrinalmente curiosa, perché è indubbio che la biologia sia l’unico supporto possibile della biografia. Aggiriamo comunque questo ostacolo e affrontiamo la questione da una diversa angolatura. E’ davvero corretto affermare che l’ autodeterminazione costituisce la chiave di accesso all’autenticità, all’identità, al regno della sovranità individuale? E’ lecito dubitarne.

Per gli umanisti, l’autodeterminazione, producendo un indubbio alleggerimento da vincoli esterni, garantirebbe la libertà. Nella realtà è il contrario, almeno in tutti quei casi in cui alla scomparsa dei vincoli esterni corrisponde l’inattesa elaborazione inconscia di nuovi e imprevisti vincoli interni.

Al soggetto posto in una condizione di astratta sovranità si spalanca davanti non uno straordinario ventaglio di nuove ed inedite possibilità, ma il vuoto depressivo, che mette in questione l’assetto identitario della persona. La libera decisione, come effetto proprio dell’autodeterminazione, è ben altro da come l’ipotizza l’ umanesimo esclusivo: decidere significa etimologicamente tagliare ed ogni taglio genera angoscia e sofferenza, perché si è tutti ben consapevoli che ciò che viene tagliato non potrà più essere ricucito. La depressione ha acquistato lo statuto di dimensione psico-patologica dominante nella modernità, come ha ben sottolineato Alain Ehrenberg, perché è l’effetto, tipicamente moderno, della pretesa di caricare il soggetto di forme di responsabilità, che egli non è in grado di gestire.

Siamo partiti da un’esigenza: quella di dare un fondamento <em>valoriale alla democrazia. Scienza & Vita vola basso e lo fa intenzionalmente: segue la strada del realismo classico, per la qualedifendere la vita è la forma più immediata di prendere sul serio il mondo umano, la cui dignità traspare da tutte le sue dimensioni concrete, tra cui, primariamente, quelladella sua fragilità. Gli umanisti esclusivi pretendono di volare ben più in alto; non negano il corpo, ma lo mettono da parte; esaltano desiderio e volontà; postulano soggettività sovrane, che solo attraverso l’autodeterminazione darebbero consistenza alla dignità della persona. L’esito dell’umanesimo esclusivo è inevitabile: da una parte il misconoscimento della dignità di chi non sia in grado di autodeterminarsi, dall’altra una forma paradossale di eterogenesi dei fini: anziché promuovere la liberazione del soggetto, confermandolo nella sua sovranità, l’umanesimo esclusivo lo abbandona alla depressione di chi scopre che per superare l’infinita difficoltà di essere se stessi ben altro ci vuole dell’ingenua pretesa di non essere sindacati nelle proprie scelte individuali. Creare progetti, supportarli con valide motivazioni ed elaborare opportune forme di comunicazione è possibile solo a partire dal rispetto della realtà. Nella sua astrattezza l’autodeterminazione, in buona sostanza, non crea vincoli sociali, non produce un mondo pubblico e comune, e quindi non può costituire nessun fondamento realistico per la democrazia.

Declinare secondo scienza e cura la vita significa educare alla democrazia, sostiene Scienza & Vita. Aggiungiamo –in esplicita polemica con gli umanisti: declinare secondo il principio dell’autodeterminazione la vita significa fare dell’individualità una questione di soggettività e non invece, come deve essere, di istituzioni, come appunto sono la scienza e la cura, in quanto conoscenze e pratiche oggettive ed oggettivamente valutabili nella loro qualità. La firma apposta frettolosamente sui moduli, dati per letti, di un testamento biologico mostra il vuoto intrinseco dell’autodeterminazione moderna, come dinamica che anziché produrre libertà, genera esclusivamente insicurezza identitaria e impotenza ad agire, cioè le due condizioni che più di ogni altra umiliano la democrazia, anziché potenziarla.

* Professore Ordinario di Filosofia del Diritto – Facoltà di Giurisprudenza
Università Tor Vergata, Roma
Presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani
Presidente Onorario CNB

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ZENIT Staff

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