ROMA, venerdì, 1 giugno 2012 (ZENIT.org).- Proponiamo di seguito il testo dell'intervento di Blanca Castilla de Cortázar, docente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Madrid (Spagna), tenuto questa mattina al Congresso internazionale teologico pastorale di Milano.
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Desidererei incominciare con quelle parole che il libro dei Proverbi mette sulle labbra della Saggezza quando accompagna Jahvé nella Creazione dell’Universo: “Allora io stavo lavorando con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” (Prov. 8,30-31).
Come si capisce, il Dio dell’Antico Testamento non è un Dio solitario, lo accompagna la Saggezza, in cui la tradizione di Antiochia insieme con il resto della tradizione orientale riconosce lo Spirito Santo come diverso dal Logos, mentre invece la tradizione occidentale non la differenzia dal Verbo, in ogni caso si tratta di un’altra Persona co-eterna.
Questo testo dei Proverbi permette di esprimere con parole umane qualcosa dell’intimità dell’Amore di Dio, che intreccia lavoro e gioco, tenerezza, novità e sorpresa, così la Saggezza lavora insieme a Lui nella Creazione – come appare nella Sistina, dipinta da Michelangelo – facendogli compiacere, essendo la sua allegria ogni giorno un gioco per tutto il tempo con il globo e con i figli di Adamo, che sono anche le sue delizie. Queste relazioni personali ricordano il modo suggestivo e originale in cui Giovanni Paolo II parla dell’intimità divina, parole che ha ricordato pure il Card. Ravasi: “Nel suo mistero più profondo, dice il Papa, Dio non è solitudine, ma una famiglia, dal momento che ha in sé la paternità, la filiazione e l'essenza stessa della famiglia che è amore. Questo amore, nella famiglia divina – afferma – è lo Spirito Santo”1
Da parte sua, il Messia che mangiava e beveva alle nozze come quella di Cana e accettava con piacere di mangiare nelle case di coloro che lo invitavano – Zaccheo, Simone il Fariseo, Matteo, Pietro ei suoi amici di Betania -, descrive in diverse occasioni il Regno dei Cieli come una casa di Famiglia, la casa del Padre nella quale ci sono diverse dimore e nella quale si celebra una gran festa con banchetti, dove si partecipa vestiti a festa e, in compagnia di famigliari e amici, condividendo la buona tavola e il migliore dei vini.
In definitiva, l’incontrarsi e lo stare con i propri cari, il giocare e il gioire con loro, sono gli ingredienti rivelati per parlare oggi della Famiglia e della festa, guardando alla Famiglia di Nazareth che – definita da Gerson “trinità della terra” – è la migliore immagine dell’Intimità divina.
I. LA GIOIA DI FESTEGGIARE
E' stato notato negli ultimi decenni, che l’uomo moderno ha guadagnato “il tempo libero”, però ha perso il senso della festa. Alcuni romanzi (“Momo”) descrivono la fretta interiore ed esteriore dell’uomo delle grandi città, intrappolato dallo stress, correndo sempre e guardando l’orologio. Nessuno mai disponibile, con cui si possa parlare – sempre attaccato al cellulare – a mala pena guarda ciò che lo circonda se non è per comprarlo. Imprigionato da questo modo di vivere, l’essere umano solo trova vuoto, lavora - forse molto – ha tante cose da fare, però non sa sognare, né godere, nè perché nè per chi lavora se non per sé stesso, corre però non sa verso dove e se i suoi progetti falliscono il suo crollo è totale.
Pensando alla Festa, mi sono ricordato la risposta di uno dei miei insegnati quando ringraziandolo – terminati i miei studi – per quanto ero stata bene durante le sue lezioni, di come avevo assaporato le cose che capivo, mi disse: “Signorina, è che conoscere è una festa.”
Festeggiare, quindi, è stare dove uno si sente bene, lì dove si condivide in abbondanza ciò che piace a tutti. È una festa stare con il Papa, forse proprio per questo siamo qui. Sarà una Festa il Cielo, per questo vogliamo essere salvati, e veniamo qui per imparare che pure la nostra famiglia può essere una festa, più quotidiana e accessibile, che ci allieta i giorni e ci prepara per le grandi feste che ci aspettano, come quella che vivremo – o stiamo vivendo – qui.
II. PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI DELLA FAMIGLIA
Viviamo in un momento in cui sembra conveniente “ripensare” la famiglia per riscoprire con nuove luci il dono di essere strutturalmente esseri famigliari, di essere parte di una genealogia e di poter costruire ogni giorno la propria famiglia. Ricordiamo, allora, alcuni dei suoi fondamenti:
1. La Persona “un dono”, “capace di donare”
Ogni persona è un dono, in primo luogo per se stessa. È ovvio che nessuno decide di venire al mondo, sebbene non sia vero che è gettato in essa. Dopo l’esistenzialismo una antropologia realista riconosce che ciascun essere umano nasce e si fa ed è così tanto quello che riceve che ciascuno è molto di più di quello che sa di sé stesso – “se conoscessi il dono di Dio”, diceva Gesù alla Samaritana -, da allora non ha perso validità né difficoltà la millenaria leggenda del Tempio di Delfi: “Conosci te stesso”2
La persona è un dono per sé stessa e un dono perché sia SUO. Quindi l’essere auto-proprietaria della propria realtà sia una profonda e certa descrizione di quello che è essere una persona (Zubiri) *. Questa auto-proprietaria porta al fatto che nessuno – tranne Dio -, ha diritti su un’altra persona tranne nel caso in cui non sia essa a donarsi. Come nessuno ha “diritto” ad avere un figlio, per esempio, perché il figlio pure è un dono per i genitori.
Ciascuna persona riceve e riceve molto: riceve dal Creatore il suo essere personale, che la rende unica e irripetibile, i suoi genitori gli trasmettono la natura umana – corpo e mente -, con l’eredità genetica, e al nascere prematuramente si delinea dal punto di vista culturale attraverso l’attenzione dei famigliari, l’educazione e le possibilità al suo contorno, che pure gli sono date. Tutte le possibilità vengono prima del proprio agire liberamente.
A differenza degli animali, l’essere umano è capace di avere. La natura umana, a differenza degli altri esseri del Cosmo è capace di abitudini, e sebbene abbia proprie leggi non è completamente programmata. Per questa ragione le loro strutture universali, come il bisogno di cibo o riposo, o la capacità di parlare o di famiglia - come dice Levi Strauss, si sviluppano culturalmente. Zubiri ha detto che l'uomo ha un'essenza aperta, molte delle sue qualità le acquisisce per autodeterminazione, che si caratterizza per la capacità di AVERE. L'uomo ha nel suo corpo e nella sua mente, non solo vestiti e beni materiali, ma anche abilità fisiche, manuali, atletiche, ecc., che diventano più profonde nella psiche, con le abitudini intellettuali e morali.
Ma c’è di più, in quanto PERSONA l’essere umano è capace di DARE (Polo) e di darsi. La persona, essere libero e intelligente a radice, è fatta per amare liberamente - "perchè sí" dicono da dove vengo io; per questo può DARE gratuitamente rendendo come proprio il bene di un altro.
2. La Persona “centro” e “incontro”
Questa capacità a DARE pone in evidenzia due dimensioni inseparabili, sebbene differenti della struttura della sua intimità. Da un lato la persona, ciascuna, è un essere con valore in sé, l'unico essere dell'universo, - dice il Concilio Vaticano II -, che Dio abbia amato per se stesso (GS, 22). In secondo luogo, la persona è un essere relazionale, aperto, non solo nella sua essenza, abbiamo detto, ma nel suo stesso ESSERE, con una relazione di origine – la filiazione – e con una di apertura ad essere sposa, che la costituiscono. Il Concilio esprime ciò affermando che "solo raggiunge la sua pienezza nel dono sincero di sé agli altri" (GS, 22).
Lungo tutta la storia del pensiero, fino al XX secolo, la nozione di persona forgiata nel siglo IV - ha dato vita a animati dibattiti accademici, ma ha avuto poco peso antropologico: basterebbe ricordare che ogni teoria politica della modernità si basa sull'individuo, non si tratta della persona. E essere un individuo non è esattamente la stessa cosa che essere una persona. Un individuo può essere isolato e una persona è un essere strutturalmente relazionale.
Prendendo alcune preziose intuizioni, Kant sostiene che la persona è un Fine in sé, di conseguenza mai deve essere trattata come un mezzo ma sempre come Fine. Ma essendo ogni persona un Fine in sé, - e entriamo già nella seconda caratteristica della struttura personale che, dall’altra parte, non implica una limitazione, - tuttavia non è un fine per sè; il fine di una persona sta sempre in un'altra persona: alla quale va incontro o alla quale apre la porta. Questo perché la persona è fatta per la donazione, per l’amore. Solo quando si vive per un altro è quando si raggiunge la pienezza, che consiste esattamente nell'aver imparato ad amare.
Questo vivere per un altro non è un segno di limitazione, diceva, perché è parte dell'immagine di Dio dal momento che anche le Persone divine vivono ciascuna per le altre due. Certamente, una persona da sola sarebbe una disgrazia, come affermava Leonardo Polo, perché non avrebbe con chi comunicare, a chi donarsi. Quindi la persona può essere descritta anche come "incontro" (Rof Carvallo) con un'altra persona che si rende presente, che si può amare e da cui si può essere corrisposti.
Tuttavia, né in Dio né nell’uomo, la persona è solo relazione. In Dio, la Teologia descrive la persona divina come un rapporto sussistente, cioè una relazione con un valore in sé, sebbene la caratteristica propria di una relazione sia quella di essere rivolta verso gli altri. Qualcosa di simile si può dire della persona umana, perché la sua capacità di relazione è intrinsecamente legata al suo essere, in cui si trova il suo "centro". L’Essere della persona non è un Essere a se stante, come quello del Cosmo, ma un ESSERE-CON (Heidegger) o un ESSERE-PER (Levinas) o una co-esistenza (Polo). L'apertura relazionale si trova nel fatto stesso di ESSERE persona.
E seppure ogni uomo nasce prematuramente, indifeso e dipendente in tutto, il processo verso la maturità consiste nel raggiungimento dell'indipendenza a tutti i livelli: fisico, mentale, professionale, economico e sociale. Questa capacità di dare valore a se stesso, è la condizione per poter vivere in maniera inter-dipendente (Covey), formando e costruendo la propria famiglia.
Potremmo riassumere, quindi, queste due dimensioni della persona come "centro" e "incontro". Centro sussistente e relazionalmente aperto all'incontro con l'altro.
3. L’“unità dei due” e l’apertura al “tre”
La persona è figlio e, fosse anche solo per questo, già ha una struttura familiare nella sua costituzione intrinseca. Ma essere persona ed essere famiglia è molto più di essere figlio (altrimenti saremmo dei viziati). La persona, oltre a essere figlio ha anche una struttura coniugale - è un uomo o una donna, e può amare come un padre o come una madre. Ed è ovvio che la famiglia, oltre che il figlio ha bisogno di un padre e di una madre. La famiglia ha una struttura triangolare, composta da relazioni costitutive in cui ciascuna persona si plasma rispetto alle altre due: quindi, non ci può essere un figlio senza un padre e una madre, né una madre senza un padre e un figlio, né un padre senza un figlio e una madre.
Tuttavia, le cose non sono così semplici, perché sia l'essere uomo sia l’essere donna viene prima del loro essere padre o madre. Dall’altro lato, la famiglia è costituita in modo triadico in un altro senso, così come lo descrive il cardinale Scola - pastore di questa diocesi -, che l’ha rappresentata come "mistero nuziale", distinguendo tre momenti: 1. La differenza sessuale uomo - donna, 2. L’Amore personale tra di loro, e 3. La fecondità.
La verità è che gli esseri umani sono creati a sua immagine e somiglianza di Dio. Racconta la Genesi (1:26-27) che Dio creò l'uomo, li creò uomo e donna. È importante considerare questo singolare e plurale allo stesso tempo, - lo creò, li creò - e da notare che nel plasmare a sua immagine non fa l’uomo trio, come è Egli stesso nella sua intimità, ma come due. Due che in se stessi si completano mutualmente diventando uno. Questa "unione dei due", accoglie la pluralità e rispetta la differenza. È di più ognuna nella propria differenza è l'affermazione dell'altra. Lo dice il libro dell’Ecclesiastico lodando le opere di Dio: "Io faccio le mie opere perfette. Tutte sono doppie, una di fronte all'altra. Lui non ha fatto nulla di imperfetto. Una conferma la bontà dell’altra." (Eclo 42, 24-25) Questo stare faccia a faccia, come il testo ebraico della Genesi (2,18) afferma, significa tra le altre cose che la condizione sessuata è espressa nel corpo, la mascolinità di per sé richiama la femminilità e la femminilità di per sé fa riferimento alla mascolinità.
Dall'antropologia Julián Marías, un altro filosofo spagnolo, dice che la differenza tra uomo e donna è relazionale, come ad esempio le mani, che trovandosi una di fronte all'altra si possono legare come in un abbraccio.
Pertanto, nel creare l'essere umano, uno e plurale al tempo stesso si potrebbe dire che Dio sta plasmando un’immagine della sua Unità plurale. Giovanni Paolo II ha messo in rilievo, al di là delle celebri negazioni del passato *, che la pienezza dell’imago Dei non si trova tanto in ogni persona isolata - uomo o donna -, ma nell’"unione dei due", nella comunione di persone che vivono tra loro, in modo che questa "unione dei due" sia un’immagine dell'unità della trinità divina.
La donazione disinteressata che forma parte dell’unione dal momento che è corrisposta diventa reciprocità. Tuttavia, l'amore reciproco è possibile tra due persone, indipendentemente dal loro sesso, però, nell'amore e nell'unione tra un uomo e una donna c'è anche una complementarietà particolare. Secondo la sua nuova antropologia, Papa Wojtyla dice nel 1995, dando una nuova svolta a questo problema, che tra l'uomo e la donna ciò che è reciproco è la complementarietà, allora "la donna è il completamento dell’uomo, come l’uomo è il completamento della donna: uomo e donna sono tra loro complementari "(n.7). Continua indicando che questa complementarietà non si riferisce solo all’ambito dell’AGIRE, ma soprattutto all'ESSERE, concludendo uomo e donna "sono complementari non solo biologicamente e psicologicamente, ma, soprattutto, dal punto di vista ontologico" essendo l'”Unione dei due” una "uni-dualità relazionale complementare" (n.8).
Con queste espressioni, che richiedono uno sviluppo successivo, Karol Wojtyla sta dando una forma filosofica a questioni che conosce bene come poeta. I poeti, infatti, indagano meglio di chiunque altro l’essere e il suo significato. Un poeta spagnolo, scrittore di canzoni, descrive l'amore tra l'uomo e la donna come qualcosa di intangibile e profondo tra TU e IO, come un luogo dove sentire la voce, un perdonarmi TU e un comprenderti IO. Inoltre, e soprattutto, canta “all’unità dei due”. Descrive l'Amore dicendo che è un frutto per DUE, un ombrello per DUE o una storia scritta per DUE o creare un mondo tra i DUE (Buber). E in una canzone alla tentazione confessa: "Non c'è menzogna in una cosa trasparente, bella e fragile come è l'amore. Non la chiami viltà. Ci sono cose nella vita che sono solo per DUE, solo DUE. "
In ogni caso nemmeno il Due è sufficiente per essere famiglia. L'unità del due si esplica nel tempo, aprendosi al "tre", vale a dire, alla fecondità, all’abbondanza. La mascolinità e la femminilità, quando mettono insieme le loro risorse in un obiettivo comune, si potenziano e insieme sono in grado di ottenere ciò che non possono fare ciascuno di essi sep aratamente. Nell’arte, nello sport, nella cultura, nel lavoro, nella costruzione della storia, in famiglia.
È plastico e visivo, per esempio, nel pattinaggio artistico a coppie, che - oltre al fatto di fare la stessa cosa in maniera sincronizzata -, quando ciascuno mette in campo la propria caratteristica peculiare, lui la forza, lei la flessibilità, sono capaci di sorprendere con le loro possibilità.
La reciprocità e la complementarità insieme conferiscono una forza espansiva, capace di novità come nel caso della vita. Ciascuna persona è il nuovo (Polo), qualcuno che prima non c’era e ne tornerà ad avere qualcuno come lui, una nuova libertà che irrompe e potrebbe cambiare il corso della storia (Arendt). Per cui bene, nella famiglia, i genitori - con l'aiuto di Dio, come riconosce Eva quando ha il suo primo figlio * - sono procreatori, creatori della vita. La famiglia, che ha la sua origine nell’unione dei due ed è in maniera costitutiva aperta AL TRE, ha la forza di irradiare dall'interno, essendo culla e fonte di vita.
Questa feconda apertura al “tre” è narrata anche nel primo capitolo della Genesi quando Dio, benedice i nostri progenitori, Adamo ed Eva, dicendo: "Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela". Interessante notare in questo versetto che sappiamo a memoria, che Dio affida ad entrambi un duplice compito comune: la famiglia e il dominio del mondo, creare e curare la vita e costruire la storia. In questi due compiti, inseparabili, l'uomo e la donna sono co-protagonisti, sia nella sfera privata e sia in quella pubblica.
L'esperienza storica mostra che nel corso dei secoli quando è stato separato l’ambito pubblico da quella privato, assegnandone uno a ciascuno dei sessi: "Public man, private woman” riassume Elshtain, entrambi gli spazi risultano unilaterali e squilibrati. Nella famiglia è frequente l'assenza del padre – “Fatherless America” si intitola un suo recente saggio, allorché l'ambiente lavorativo risulta eccessivamente competitivo e gerarchizzato, diceva il relatore Bruni, aspettando il "genio" della donna – come avrebbe detto Karol Wojtyla -* per renderlo abitabile.
L'uomo e la donna sono due modi diversi di fare lo stesso, così l'attività umana in ogni campo, in qualsiasi ambito, affinché risulti completa ha bisogno della collaborazione delle risorse di entrambi, per questo sono così fecondi i gruppi dove lavorano insieme uomini e donne. D'altra parte, sia la maternità che la paternità sono fondamentalmente un'attività dello spirito che ha ora un compito in sospeso e necessario per costruire una "famiglia con un padre e una cultura con una madre" *.
III. ESPERIENZA DELLA FESTA
Passiamo ora a descrivere alcuni aspetti della Festa. In primo luogo, vivere la Fesra richiede di sviluppare la forsa dello spirito – ristabilirla lì dove si è persa -, imparando a esercitare l’intelligenza e la libertà nell’amore della verità e del bene.
1. L‘amore della verità e del bene
La Festa suppone l’esercizio dell’intelligenza nella sua dinamica della ricerca della verità. “Conoscere è una festa”, diceva il mio professore. E richiede anche l’esercizio della libertà nel raggiungimento del bene. Nell’errore e nella menzogna la festa dura poco. Se la festa non è vera, ritorna odio, amarezza o rivalsa. Uno finisce per sentirsi male, sentendosi a disagio, invece di godere e vivvere bene.
L’ambiente delle società opulente, con il loro eccesso di beni materiali provoca malattie – obesità, diabete tipo 2, malattie cardiovascolari -, abitudini non sane – cattiva alimentazione, sedentarietà,...-, e rende difficile il vero senso della Festa, fomentando la passività, l’individualismo, consumismo, la noia, la tendenza al facile e ai piaceri con effetti collaterali. E’ indicativo che se si cercano in Internet informazioni sulla Festa la possibilità che offre, oltre al ballo, è l’alcool nelle sua distinte varietà: birra, champagne, coktail, margarita, vino o vodka – letteralmente -.
L’abbondanza, che è buona, i soldi, i beni materiali e la tecnica, strumenti per raggiungere il fine, se si trasformano nel fine debilitano la persona, la corrompono. Se i bambini vedono solamente molte ore di Tv, che è passiva e invade i sensi, frena la loro immaginazione, annulla la loro creatività, fomenta la la sedentarietà e non poche volte ruba loro l’infanzia, impedendo loro di spaventarsi con ammirazione davanti alla scoperta dell’origine della vita, imponendo loro rozzamente una informazione decontestualizzata e a volte perversa.
La tecnologia, che suppone progresso, a secondo come si utilizza, - TV, cellulari, videogiochi, computers, internet, chat, ...-, fomenta l’isolamento provocando, per esempio, che i giovani abbiano poche conversazioni e che si generino dipendenze malsane.
La ricerca della verità, tuttavia, l’educazione del desiderio, la scelta dei beni più elevati sebbene sia arduo conseguirli, richiede abitudini positive che diano forma alla capacità di bene e di verità. Potremmo dire che non solo apprendere è una Festa ma che essere in Festa anche si apprende.
2. Le emozioni della Festa.
In quel apprendimento, appaiono come in cascata sentimenti insospettati emozioni più profonde – di altro livello, di altra generazione -, che i puramente psicosomatici, che ratificano e incrementano a loro volta l’amore delle verità: è l’affettività che manifesta le possibilità del cuore umano.
Va osservato, in primo luogo, la capacità dell’ammirazione, che ha le sue radici nell’intelligenza e nella libertà, e che unisce verità e bellezza. Ammirare – l’arma dei poeti e dei filosofi attenti alla realtà -, è il miglior modo di apprendere. L’ammirazione tra i sessi opposti, per esempio, è il miglior antidoto al maschilismo e al femminismo egualitario che manipola il genere.
Ammirare la bellezza della Natura è una festa, e chiedere alle persone, contemplarle, porta all’amore personale: un atto della volontà che si bea della verità dell’altro, che è la sua realtà personale. La persona si ammira e si ama per se stessa.
Da parte sua, l’amore personale porta con sè la gioia. La gioia è più che un piacere, è un affetto spirituale che non conosce l’edonista, il quale sente piacere a cui però risulta impossibile godere nella contemplazione “di un bottiglione di birra”. La birra, in ogni caso, accompagna alla gioia però in alcun modo ne è una causa.
La gioia che suppone l’amore verso una persona, che si ammira è accompagnata da un altro sentimento positivo, sicuramente uno dei più importanti, che si sappia: il rispetto. Si rispetta quando si vede dentro a ciascuna persona quello per cui è superiore a noi, quando si avverte non solo quello che è ma anche quello che potrebbe essere. Questo risprtto genera fiducia.
Potremmo parlare anche di gratitudine di che riconosce di essere in debito per tutti i doni ricevuti. L’attitudine alla gratitudine si manifesta nel rendere proprio quanto ricevuto, coltivere questi talenti e farli corrispondere al ricevuto.
Infine, l’ammirazione, punto di partenza di tutte queste insospettate emozioni, si apre all’esperienza più nobile dell’essere umano: l’adorazione – ammirazione che si dirige verso la Verità, al bene più ammirabile -. L’adorazione viene ad essere, quindi. Il punto culminante della Festa.
3. Tempo della Festa
Parte dell’emozione della Festa è desiderarla, aspettarla e prepararla. Diciamo che essere in Festa si apprende, in altre parole la Festa non si improvvisa come non si improvvisa avere amici. L’amicizia devi crearla, così la Festa, per la quale è imprescindibile l’incontro con l’altro. Lz Quintàs, altro pensatore spagnolo, afferma che “dove c’è incontro c’è allegria e c’è festa”.
Una descrizione della creazione dei legamo personali la fa Saint-Exupéry nel sostanzioso tra il Piccolo Principe, che viene sulla Terra a cercare amici e la soli taria volpe che anche li desidera avere e chiede che la “addomestichi”: “ se mi addomestichi avremo bisogno l’uno dell’altro – gli dice – . Sarai per me unico nel mondo. E io sarò per te unico nel mondo (...). Mi annoio un poco, però se mi addomestichi, la mia vita si riempirà di sole. Conoscerò il runore dei tuoi passi che sarà diverso da quello degli altri, chiamandomi fuori dalla tana, come una musica. Solo si conoscono le cose che si addomesticano – chiarisce la volpe -. Gli uomini non hanno più il tempo di conoscere nulla. Comprano cose fatte dai mercanti. Però non esistono mercanti di amici. Se vuoi un amico, addomesticami!”.
Quando il Piccolo Principe chiede istruzioni, la volpe gli dice di essere paziente facendo riferimento al luogo ad al tempo. “Ti sentirai all’inizio un pò lontano da me (...). Ti guarderò do sbieco e non dirai nulla (...) Però ogni giorno potrai sederti sempre più vicino (...).
Preparare la festa è fissare il luogo , la data e l’ora. Conoscere il momento e aspettarlo è fonte di emozioni. E’ un ingrediente per creare legami che uniscono le persone che diventano parte della nostra vita. Nel Piccolo Principe, si parla in questo senso della necessità dei riti per preparare il cuore. I rirti fanno riferimento al tempo: “se vieni, per esempio, alle quattro del pomeriggio – gli dice -, comincerò ad essere felice dalle tre. Quanto più avanza l’ora, più felice mi sentirò. Alle quattro sarò agitato e inquieto; scoprirò il prezzo della felicità! Però se venissi a qualsiasi ora, mai saprò a che ora preparare il mio cuore.... I riti sono necessari”.
“E cos’è un rito?”, domanda il Piccolo Principe. “E’ qualcosa troppo dimenticato – disse la volpe -. E’ quello che rende un giorno differente dagli altri; un’ora dalle altre ore”. E racconta come esempi: “Tra i cacciatori c’è un rito. Il giovedì ballano con le ragazze del popolo. Il giovedì è, quindi, un giorno meraviglioso. Vado a passeggiare fino alla vigna. Se i cacciatori non ballassero in un giorno fisso, tutti i giorni apparirebbero ed io non avrei vacanze”. (c. XXI).
La Festa è un momento, un giorno speciale. Prepararla suppone sforzo, che è ricompensato dall’allegria gioiosa o serena, a seconda dei momenti che riempie il cuore di pace.</p>
IV. LA FAMIGLIA, LUOGO PER LA FESTA
Il focolare della famiglia è il luogo dove si nasce, dove si sta, dove si gioca, dove si torna, dove si muore, però per andare alla Casa dove si vive e si ama per sempre. La famiglia trasmette l’aria della famiglia, un modo di vivere, qualcosa intangibile che per essere atria – spirito -, si respira e si impara senza rendersi conto.
Vorrei soffermarmi ora su alcuni modi di come vivere in famiglia, caratteristiche dell’Amore descritte nel libro deo Proverbi: la Saggezza ha i suoi piaceri nello stare con i figli degli uomini e gioca con l’orbe, sempre in presenza di Jhavè.
1. L’importanza dell’essere
Prima di tutto la Saggezza “è”, quello che mette in rilievo è che “l’incontro” con l’altro necessita cura. E come il tempo sembra un bene scarso nell’agitato mondo nel quale viviamo, è preciso delimitare momenti per l’incontro, tempo per stare insieme, tempo per la convivenza.
Condividere la tavola –almeno una volta al giorno-, è un momento importante che ha benefici persino per la salute, in quanto i bambini apprendono a nutrirsi sanamente. La tavola e la tovaglia permettono di cambiare impressione del giorno e conoscere uno dell’altro. In una pellicola di Bruce Willis “Storia di noi” – racconto di una crisi matrimoniale e dell’iter fino al suo superamento-, genitori e figli cenano insieme ogni giorno e ciascuno racconta – con più o meno sincerità -, il meglio e il peggio della sua giornata condividendo così gioie e dolori.
Essere suppone anche –ne abbianmo già parlato-, condividere i lavori domestrici, gli incarichi, portare insieme il peso del focolare. Essere è cogliere le necessità reali di ciascuno per risolverle o almeno accompagnarle. E parlando del tempo l’importante è la qualità più che la quantità. Non è perchè si sta molto tempo vicini che ci si fa compagnia. Si può stare vicini, sebbene fisicamente si sia lontani, se si sta pensando nell’altro e condividendo gli stessi interessi e sogni.
Se si sente il bisogno della quotidianità, nei giorno festivi è tempo di allargare la tavola e stare insieme, non è sufficiente parlare, si può anche cantare. Provengo da una terra – i Paesi Baschi -, dove la gente è famosa per il buon palato, per il cibo, il bere e la buona voce per cantare. E’ certo che con l’allegria che il vino porta al cuore è tradizione lì cantare a tavola, sempre le stesse canzoni. E questo lascia un riposo indimenticabile.
2. Condividere hobbies
Si rendono felice gli altri conoscendone i loro gusti, fomentando i loro hobbies, cercando per ciascuno l’hobby più adeguato alle sue capacità o necessità (ricordo una madre che a un figlio inquieto e rissoso, che aveva buon orecchio -, lo mise a suonare il clarinetto affinchè sfogasse lì le sue energie restanti invece di litigare e picchiare i suoi fratelli. E un altro che era anche un pò passivo fisicamente, lo incoraggiò a montare a cavallo per renderlo dinamico. Tuttavia, per rendere più agile l’adolescenza ad un altro, decise di condividere con lui la musica e decisi di imparare anche lei a suonare il piano).
Se unisci le forze, condividere le passioni è un buon modo di compenetrarsi e potersi aiutare nei momenti duri della vita.
3. Giocare con gli altri e praticare il buon umore
Vicino alla Saggezza non c’è la noia, perchè il suo ingegno sorprende, fa ridere, rompe la monotonia se ci fosse, al suo lato c’è felicità, diversione e riposo. La Saggezza diletta Dio e gli uomini, sta bene tra loro perchè li vuole, tutti come sono. E tutti stanno bene vicino a Lei, perchè si sanno conosciuti e voluti.
Prima di tutto la Saggezza sa giocare. Il gioco, come tutta l’attività ludica, è un’attività libera, non necessaria, nella quale non si cerca nienete di più che star bene, però mediante esso si impara a vivere, a relativizzare i successi e gli insuccessi, perchè nel gioco non si vince nè si perde niente di vitale. Nel gioco ogni successo è incoraggiato e allo stesso tempo prematuro.
Essendoci molti modi di giocare, uno importante è raccontare favole ai piccoli, sebbene siano sempre le stesse.
E insieme al gioco e al buon umore, quello di cui faceva grazia Tommaso Moro quando chiedeva al Signore:
- Dammi una buona digestione e naturalmente qualcosa da digerire.
- Dammi un anima che non conosce tristezza, non permettere che prenda troppo sul serio quella cosa tanto invadente che si chiama “io”.
- Dammi il senso dell’umore. Concedimi il dono di comprendere uno scherzo, di capire una barzelletta per trarre un pò di felictà dalla vita e poterla regalare agli altri.
V. LA FESTA, DOVE IL TEMPO SI UNISCE ALL’ETERNITA’
La Festa è un giorno speciale, diceva Saint Exupery, o forse ciò che fa di ogni giorno una Festa. Però ci sono giorni speciali in cui uno si ferma a dedicarsi di più a quello che da senso agli altri. Un giorno dove c’è posto per la contemplazione, l’adorazione, la gratitudine, come è la Domenica che è prpriamente un “rito”.
Un giorno per andare a Messa, tempo nel quale si ferma il tempo per unirsi con l’eternità. Milano ha esempi per illustrare il detto della mia terra: “La Festa si riconosce per la Messa e per la Mensa”, come l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, famosa in tutto il mondo.
Tante grazie
*
1 Giovanni Paolo II, Omelia, 28 I 79.
2 "Nosce te ipsum". “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei.” Traduzione latina della massima greca scritta sul Tempio di Apollo (Delfi). Questa scritta, me ssa dai sette saggi sul frontespizio del tempio di Delfi, è un classico del pensiero greco.