di Paolo Lorizzo*
ROMA, sabato, 24 marzo 2012 (ZENIT.org) – Per chi decide di allontanarsi dalla grande monumentalità del colle Capitolino a Roma, lasciandosi alle spalle piazza Venezia e il maestoso Altare della Patria, può incamminarsi verso Largo Argentina percorrendo la storica via delle Botteghe Oscure.
Distratti dai resti del tempio delle Ninfe di cui restano il podio e due colonne in peperino stuccato, frutto di un restauro del 1938, si è rapiti dalla suggestiva immagine della Torre del Papito che si staglia imponente in primo piano a nascondere la facciata del celebre Teatro Argentina.
Presi dal contesto scenografico della piazza si stenta inizialmente a notare che in effetti la piazza non esiste; o meglio sprofonda diversi metri più in basso a rivelare l’antico piano di calpestio ai tempi in cui Roma viveva l’età Repubblicana, quasi 2300 anni fa.
Questo è il risultato finale di una serie di demolizioni che vennero avviate all’inizio del secolo scorso, quando Roma era un grande quartiere a cielo aperto e i cambiamenti urbanistici erano all’ordine del giorno.
L’abbattimento della cinquecentesca chiesa di S. Nicola de Cesarini e degli edifici circostanti permise di riportare alla luce quella che oggi è nota come ‘l’area sacra di Largo Argentina’. Quattro strutture cultuali di età repubblicana che vennero identificati e scavati tra il 1926 e il 1928 facenti parte dell’area centrale del Campo Marzio, circondata da edifici di straordinaria rilevanza storica come il ‘Portico Frumentario’ (Porticus Minucia Frumentaria già Vetus) dove avveniva la distribuzione del grano al popolo o la ‘Sala dalle Cento Colonne’ (Hecatostylum) di cui restano purtroppo labili tracce.
I quattro templi vennero nominati, fin dalle prime attività di scavo, con le quattro lettere dell’alfabeto. A causa delle scarse cognizioni archeologiche dell’epoca, gli archeologi moderni hanno faticato non poco per riuscire ad identificare la divinità di ciascun tempio. Sappiamo infatti che tre dei quattro templi vennero dedicati a divinità strettamente legate all’Acqua (Giuturna, Feronia e Lari Permarini) mentre il quarto tempio ad Aedes Fortunae Huiusce Diei (la ‘Fortuna del Giorno presente’) edificato dal console Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C.
Il tempio più a nord, attiguo alla ‘Sala dalle Cento Colonne’ è quello dedicato alla dea Giuturna, già noto nel 1837 attraverso un frammento della Forma Urbis Severiana, un’antica pianta marmorea della città, oggi nota solo attraverso pochi frammenti.
Sopra l’area venne costruita nel XVI secolo una chiesa denominata S. Nicola de Cesarini, che impiantò le sue fondazioni sulla dimenticata ma non meno interessante chiesa medievale di S. Nicola de’ Calcarario o ‘S. Nicolai de Calcarariis’, (come venne nominata da papa Urbano VIII in una menzione del 1186, ma precedentemente consacrata nel 1132 sotto l’antipapa Anacleto II) il cui toponimo è da relazionare con la contrada chiamata ‘Calcarario’, nota fin dalla prima metà dell’XI secolo. L’origine del nome è chiaramente da mettere in relazione alle molte ‘calcare’ presenti a Roma, cosi chiamate perche venivano bruciati in appositi forni ‘a terra’ frammenti di statue, colonne, trabeazioni e tutto quanto potesse essere cotto per farne calce.
Per giungere agli strati più antichi della chiesa, chiara testimonianza della fervida devozione cristiana in età medievale, venne compiuto un certosino lavoro di ‘spoglio’ della chiesa cinquecentesca, salvando arredi e capolavori ma inesorabilmente distruggendo muri e strutture per rivelare le tracce più antiche. Fu con l’abbattimento dell’altare maggiore che venne alla luce l’antico altare marmoreo della chiesa medievale di gusto semplice ma carico di una grande energia che solo la tradizione è capace di infondere.
La chiesa era ad un’unica navata, stanziata solidamente sulla piattaforma del tempio di Giuturna e sfruttandone il lato sinistro formato da colonne per irrobustirne la parete laterale. Ad un livello inferiore è ancora perfettamente conservata una cripta semianulare i cui bracci si allargano rispetto alla linea dell’abside e un piccolo corridoio centrale lo taglia esattamente a metà, terminante con una nicchia ricavata nella fondazione dell’abside superiore.
Spesso le reliquie, a partire dal VII secolo, venivano collocate all’interno delle cripte in un punto in cui permette di comunicare, attraverso la fenestrella confessionis (un piccolo spazio di comunicazione) con l’altare, per rendere, durante la cerimonia, un contatto diretto tra il Santo e l’officiante.
La cripta, preesistente alla chiesa soprastante, presenta alcuni banchi in muratura lungo i muri, a testimoniarne l’uso ‘segreto’ durante periodi di guerre o invasioni, quando le catacombe non erano più luoghi sicuri per officiare le funzioni e si preferiva un contesto urbano più sicuro.
E’ un peccato che la visione dall’alto dell’area non renda giustizia a questo piccolo gioiello medievale, tornato alla luce un po’ per caso, quasi del tutto ignorato dalla vita pulsante della capitale ma che sa ancora raccontare e trasmettere emozioni a chi si ferma anche solo un attimo ad osservarlo.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.