L'antico legame tra San Gregorio al Celio e Canterbury

Un’intervista a padre Peter Huges, rettore dei camaldolesi di Roma

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ROMA, venerdì, 9 marzo 2012 (ZENIT.org) – Su uno dei sette colli di Roma, il Celio, sorge la chiesa dei San Gregorio. Qui Benedetto XVI incontrerà domani, sabato 10 marzo, l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, per celebrare i vespri, che vedranno la partecipazione dei monaci camaldolesi e le voci del coro della Pontificia Cappella Sistina.

E’ il terzo incontro nella storia della Chiesa tra un Papa e un arcivescovo anglicano di Canterbury. Il primo è stato tra Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Robert Ramsey il 29 maggio 1982; venti anni dopo, il 21 giugno 2002, sempre il beato Woityla incontrò l’arcivescovo George Carey.

“Il legame tra San Gregorio al Celio e Canterbury è antichissimo”, spiega a ZENIT l’attuale rettore dei camaldolesi, padre Peter Huges, che indica come “San Gregorio al Celio è un luogo nel quale gli anglicani pellegrini a Roma, vengono per celebrare l’invio dei missionari che andarono ad evangelizzare l’Inghilterra e anche per pregare per l’unità dei cristiani”.

Lo sa bene padre Huges: facendo, infatti, una esperienza monastica dai camaldolesi di Arezzo, come ospite in quanto presbitero anglicano, a un certo punto ebbe l’ispirazione a rimanere in questo ordine, per poi entrare nel 2002 nella religione cattolica ed essere ordinato sacerdote quest’anno.

“Da qui Gregorio Magno, quando diventò papa – ricorda con emozione padre Huges – inviò in Inghilterra il priore di allora, Agostino, insieme a quaranta monaci in risposta ad una richiesta da parte del re di Kent, Edelberto, perché ci fosse la proclamazione del Vangelo. La regina era già cristiana e suo marito si convertì in seguito. Stavano nella regione dell’Inghilterra dove si trova Canterbury e lì fu fondato il primo monastero di Agostino in Inghilterra”. 

Una storia racconta che prima ancora dell’invio di questi missionari, San Gregorio, scendendo dal suo convento sul Celio al mercato, trovò alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, i quali erano bellissimi di aspetto ma pagani.

Allora disse che avrebbero dovuto chiamarli “non Angli, ma Angeli”. Su questo fatto, padre Huges ha detto: “Dicono che sia vero, è importante e molto bello che queste cose rimangano nella tradizione perché ci indicano qualcosa di molto profondo e anche perché gli angeli ci arrivano da origini sorprendenti”.

“Oggi qui – prosegue padre Huges – c’è questa casa del nostro ordine benedettino camaldolese. E’ l’ordine benedettino riformato da San Romualdo tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo. Nel 1571 i camaldolesi sono ritornati qui per ricostruire la comunità monastica. E quest’anno la nostra casa madre ad Arezzo, l’ultima e unica fondazione di San Romualdo a rimanere in continuità, festeggia i mille anni”. 

Il rettore ricorda, inoltre, che a San Gregorio al Celio “i monaci seguono la regola di San Benedetto, in una giornata che è scandita da momenti di preghiera, lavoro e studio”, caratterizzata anche da una dimensione pastorale apostolica, “in cui ci mettiamo in contatto con il mondo esterno, facciamo conferenze”.

“C’ è un percorso che svolgiamo – aggiunge – ovvero le settimane di Camaldoli. Per esempio noi ogni anno abbiamo un programma molto ricco di conferenze, incontri e ritiri spirituali, che permette un importante scambio tra persone dall’esterno e la comunità”.

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Cenni storici:

I monaci e le monache camaldolesi fanno parte della Congregazione benedettina camaldolese, che prende il nome dalla località di Camaldoli, in provincia di Arezzo.

Si legge nel sito camaldolesiromani.it: “Nel silenzio e nella bellezza delle foreste del Casentino, san Romualdo, con spirito creativo e fecondo, gettò le basi per una nuova sintesi della vita monastica, sul solco e nella tradizione della regola benedettina e con l’apporto di elementi della tradizione monastica dell’Oriente cristiano”.

San Gregorio Magno:

San Gregorio, convertitosi alla vita monastica nel 574–575, trasformò la casa paterna nel Celio in un monastero dedicato a sant’Andrea apostolo, nel luogo dove attualmente sorge il Monastero di San Gregorio al Celio.

Poco dopo papa Pelagio II lo inviò verso il 579 come apocrisario, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.

Ritornò poi a Roma, ma nel monastero sul Celio; vi rimase per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu eletto papa e 64º vescovo di Roma, dove regnò fino alla sua morte, il 12 marzo 604.

Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi. Promosse inoltre il canto gregoriano che da lui prese il nome.

Un altro fatto popolarmente conosciuto della vita di San Gregorio è legato a una pestilenza a Roma: per implorare l’aiuto divino egli fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore e, durante la processione, apparve sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero annunziando che le preghiere dei fedeli erano state esaudite.

Da allora la tomba di Adriano si chiamó Castel Sant’Angelo e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.

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ZENIT Staff

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