La vita è un talento meraviglioso

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, 13 novembre 2011

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 10 novembre 2011 (ZENIT.org) – “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: “Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito, colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo:

“Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il  padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il denaro e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. (Mt 25,14-30)

Ad una prima lettura, la parabola dei “talenti” si presta ad essere interpretata in termini di “opere” da far fruttificare e del buon uso dei doni ricevuti; e questo è un messaggio vero, ma certamente parziale.

In realtà, l’inizio e la conclusione del racconto fanno intuire un suo significato ben più profondo di quello morale-educativo. Esso si trova nella relazione personale con il Donatore dei talenti, presupposto di ogni fruttuosità e fonte di tutti i “beni”. Per capire in cosa consistono, basta ricordare un altro testo sacro: “La sapienza è un tesoro inesauribile per gli uomini; chi lo possiede ottiene l’amicizia con Dio, ed è a lui raccomandato dai frutti della sua educazione” (Sap 7,14).

Gesù dice oggi che i “beni”del padrone furono da lui consegnati “secondo le capacità di ciascuno” (Mt 25,15); e d’altra parte il premio per i due servi fedeli non sembra stare sul piano di una ricompensa materiale, ma su quello esistenziale dell’amicizia: “Bene servo buono e fedele, entra nella gioia del tuo padrone” (Mt 25,21.23).

Soffermiamoci su questo criterio di assegnazione dei talenti: “secondo le capacità di ciascuno” (Mt 25,15).

Possiamo intendere la parola “capacità” sia nell’accezione attiva e tecnica (quello che uno può e sa fare), sia (ed è il nostro caso) in quella passiva e fisica (la capienza), considerata qui in senso spirituale: l’uomo è ‘capace’ di Dio poiché è persona, è ‘grembo’ ontologico in grado di accogliere il seme della Parola e della Presenza divina e di farlo crescere, ricevendone per ciò stesso vita divina e amore (Gv 6,63).

Così, la parabola annuncia fin dall’inizio che Dio non è un datore di lavoro in cerca di amministratori ed operai, né ha bisogno che noi gli diamo qualcosa, come a un padrone.

<p>Dio è per noi Padre, ed ha il solo desiderio di comunicarci la pienezza della sua gioia, della sua vita, del suo immenso Amore: “La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 27).

Certamente ogni credente deve corrispondere alla generosità divina assumendosi la responsabilità di amministrare con fedeltà e saggezza i doni ricevuti, ma ciò non configura un rapporto filiale con Dio del tipo “do ut des”.

Perciò il punto cruciale della parabola è la falsificazione operata dal terzo servo riguardo la persona del padrone: “so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso” (Mt 25,24).

Sono parole sfrontate e menzognere, che lacerano il clima amichevole stabilito dal padrone al suo ritorno, e manifestano il pregiudizio sordo e cieco di questo servo superbo, evidentemente capace di ascoltare solo se stesso dando retta unicamente al proprio punto di vista.

Ad esse il padrone risponde, parimenti, senza mezzi termini: “servo malvagio e pigro,..il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre…” (Mt 25,26-30), ma ciò non dimostra che il servo aveva ragione ad avere paura di lui.

L’evangelista si serve della reazione sdegnata del padrone per mettere in guardia contro la durezza e l’autoinganno del servo, la cui colpa appare enorme proprio alla luce del vero volto del padrone.

Questo servo sembra essere il gemello di quello spietato che non sa condonare cento denari al suo debitore, dopo essere stato “graziato” del debito di diecimila talenti dal suo padrone (Mt 18,21-35).

Dalla parabola impariamo così quale è il dono e l’attesa di Dio a nostro riguardo, e cosa significa essere in relazione di amicizia filiale con Lui che ci ha creato per farci partecipi in eterno della gioia del suo Amore di Padre.  

La vita umana è un dono dell’Amore; perciò le responsabilità della vita sono uguali a quelle dell’amore: “Per questo un amore che rifiuti questa responsabilità è la negazione di se stesso, è sempre e inevitabilmente egoismo. Più il soggetto si sente responsabile della persona, più è presente in lui il vero amore” (Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, II, n. 15).

Solo agendo in questo modo il dono della vita si mantiene sempre giovane.

E’ questo anche l’incipit del messaggio della CEI per la 34a Giornata per la Vita, che sarà celebrata il prossimo 5 febbraio 2012: “La vera giovinezza risiede e fiorisce in chi non si chiude alla vita. Essa è testimoniata da chi non rifiuta il suo dono – a volte misterioso e delicato – e da chi si dispone ad esserne servitore e non padrone in se stesso e negli altri”.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.



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ZENIT Staff

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