La liturgia è il luogo in cui in modo eccellente l’arte presta il suo servizio ancillare; al proposito, il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium usa proprio il termine “servizio”, anzi “nobile servizio”: «la santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali»1.
Il Compendio del Catechismo sottolinea il valore di questa tradizione nell’accezione della bellezza: «Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza»2.
In un articolo comparso di recente, Daniel Estivill sottolinea la presenza di un contenuto oggettivo nelle opere di arte sacra che sia l’artista che il fruitore devono rispettare: «quando si tratta delle opere d’arte a servizio della Chiesa […] in questo caso non solo l’osservatore non può dare un significato all’opera, ma nemmeno l’artista nel suo processo creativo può ignorare un contenuto che gli viene dato dalla fede, senza la quale niente nella vita della Chiesa è pienamente comprensibile e attuabile»3. Il Cristianesimo ha sempre prodotto immagini, a motivo dell’Incarnazione del Verbo di Dio che si è fatto visibile. Per questo motivo, l’arte è intrinsecamente legata alla religione cristiana, tanto che il Cristianesimo ha condizionato «in modo strutturale la storia della cosiddetta civiltà occidentale delle immagini»4; autorevolmente il Catechismo della Chiesa Cattolica, afferma: «è stata l’Incarnazione del Figlio di Dio ad inaugurare una nuova economia delle immagini»5.
Infatti un’arte sacra cristiana è sempre esistita, e non bisogna inventarla o negarla: l’Incarnazione di Dio Figlio ha sconvolto la storia dell’uomo e anche la storia dell’arte; come afferma San Giovanni Damasceno, citato anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «un tempo Dio, non avendo né corpo, né figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da una immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e che ha vissuto con gli uomini, posso fare una immagine di ciò che ho visto di Dio»6. Se l’uomo pre–cristiano o non–cristiano può trovare delle ottime ragioni per glorificare Dio attraverso la riproposizione artistica della bellezza del Creato, tanto più l’uomo cristiano non può che gioire di fronte alla possibilità di poter riprodurre in immagini Cristo, la Madonna e i Santi. Questa possibilità, percepita come eccezionale fin dall’inizio —si consideri al proposito «il fiorire in tutte le Chiese di numerose storie e leggende sul vero ritratto del Signore e della sua Santissima Madre”7—si radica soprattutto nelle parole di Cristo risorto: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24, 38-40). All’artista cristiano è dunque chiesta non un’arte che finga fantasmi, ma un’arte che rappresenti corpi reali di carne e ossa. Ancora il Catechismo afferma: «Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il corpo di Cristo era delimitato. Perciò l’aspetto umano di Cristo può essere “dipinto”»8.
Ma allora, giungendo alla questione cruciale, ci possiamo finalmente domandare quale figurativo dovremmo auspicare per lo sviluppo dell’arte sacra nel XXI secolo. Quale formula stilistica dovremmo intraprendere e come procurarcela? Queste domande si stanno imponendo da tempo e circolano rapidamente all’interno della cultura cattolica. Alcuni cercano le risposte in “operazioni alchemiche”, fatte in laboratorio, altri affermano che quel che deve essere scelto deve pervenire direttamente dal “mondo” senza alcun filtro, altri ancora pensano che ci debbano essere dei legami con l’arte paleocristiana e altri invece seguono le varie mode che si susseguono ininterrotte da decenni: neo-popolare, neo-romanico, neo-bizantino o il più diffuso pop. Ma come raccontava Tacito nelle Historiae, — quando, nel tragico momento delle guerre civili dell’anno 69, furono diffuse strategicamente delle dicerie sulla presunta morte di Ottone al fine di far uscire allo scoperto Galba, e sconfiggerlo definitivamente – “nemo scire et omnes adfirmare”, oggettiva infinitiva traducibile come “nessuno sapeva e tutti parlavano”. Descrive uno stato d’animo tipico nei momenti di passaggio, nelle situazioni di confusione in cui tutti facilmente sono suggestionabili, perché disposti a credere ad una soluzione, in quanto desiderata e necessaria. Ma purtroppo sbagliarono i sostenitori di Galba allora, e sbagliano quelli che oggi sono disponibili alle facili soluzioni, e che, senza alcuna riflessione e senza alcun approfondimento delle questioni in gioco, si gettano rapidamente alle conclusioni, invece di intraprendere la più lunga e più difficile strada dello studio.
Affinché l’arte pittorica possa svolgere il suo “nobile servizio” ancillare, deve essere umile, farsi servitrice e non protagonista. Deve rappresentare le sacre storie e il credo della fede “nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza”, senza rinunciare alla capacità narrativa e alla via della bellezza; infine, mettendo al centro la corporeità dell’Incarnazione, deve essere comprensibile.
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NOTE
1 Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 122.
2 Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 5.
3 D. Estivill, L’iconografia: strumento di lettura e di creatività per un’arte a servizio della Chiesa, in “Arte Cristiana”, 865, 2011, p. 289.
4 A.Pinotti, Estetica della pittura, il Mulino, Bologna 2007, p. 187.
5 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1159.
6 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1159.
7 M. Gallo, Per una lettura cristiana dell’immagine, Guaraldi, Rimini 1992, p. 11.
8 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 476.