Card. Bagnasco: l'Italia ha bisogno di un patto intergenerazionale

Intervento all’incontro a Roma “La Chiesa, lo Stato, le Regioni e l’Unità d’Italia”

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ROMA, martedì, 27 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato questo martedì dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, all’incontro “La Chiesa, lo Stato, le Regioni e l’Unità d’Italia”, tenutosi a Roma all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.

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Il cortese invito a questo incontro da parte dell’Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco, offre la gradita opportunità di mettere a tema – ancora una volta – il 150° anniversario dell’Unità d’Italia in un momento assai delicato per il nostro Paese. E’ speranza comune e determinazione convinta che il felice anniversario susciti “un nuovo innamoramento” dell’essere italiani. Tale auspicio non essendo una semplice emozione richiede di confidare in una relazione sempre più virtuosa tra la Chiesa e lo Stato, all’insegna di quel principio di sussidiarietà che fu anche terminologicamente coniato da un grande Pontefice italiano (Pio XI, Quadragesimo Anno, 81), il quale – nell’epoca delle ideologie totalitarie – volle ribadire ciò che rende possibile la convivenza in una Nazione moderna e complessa.

Il contributo decisivo dei cattolici all’Unità dell’Italia è ormai riconosciuto da storici ed uomini di cultura dei più diversi orientamenti, confermati in questa convinzione dall’essere la Chiesa una presenza quasi “molecolare” che si identifica con l’anima profonda del nostro popolo. Ciò spiega, ad esempio, l’intuizione immortalata già nel 1848 da Alessandro Manzoni per il quale c’è qualcosa che precede la richiesta delle forme statuali unite, e che è l’essere l’Italia “Una d’arme, di lingua, d’altare/Di memorie, di sangue, di cor” (Marzo 1821).

Proprio questa precedenza dell’Italia rispetto allo Stato unitario conferma una convinzione che è quella per cui non è lo Stato come tale ad essere all’origine di un popolo, ma il sentire profondo nei confronti della vita, degli altri, del mondo. In una parola, è il patrimonio valoriale e culturale che delinea un comune destino e sprigiona il senso di comune appartenenza. Su questo tema la Chiesa cattolica ha avuto e continua ad avere una parola quanto mai significativa, il Vangelo. Attorno al Vangelo, come è noto, si è formato e si alimenta quel pensare di fondo e quel sentire umanistico che ispira l’ethos popolare, vera anima della Nazione. Significativamente, nel suo recente Discorso al Parlamento tedesco, Benedetto XVI ha descritto il rapporto tra il diritto e la giustizia – e con ciò implicitamente il rapporto tra lo Stato e altre istanze non statali – dicendo che: ” Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità”. Nel nostro Paese la Chiesa ha sempre rappresentato, e ancor oggi viene riconosciuta, come un fattore di umanizzazione senza del quale il panorama sociale e culturale, oltre che spirituale, sarebbe ben diverso. Anche il recente Congresso Eucaristico di Ancona ha reso più evidente che c’è un legame sottile e pervasivo tra la fede e la responsabilità per l’insieme sociale, e che un certo affievolimento della fede finisce per procedere di pari passo con il venir meno di una autentica sensibilità per il bene comune.

Le difficili congiunture strutturali – che ci si augura possano essere affrontate con vigore ed efficacia – non sono superabili dunque senza far riferimento ad un investimento più profondo e di lungo periodo perché l’unità del Paese, ieri come oggi, si realizza solo attorno al “retto vivere”. La religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e vogliono esser fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. E’ questo patrimonio vissuto e arricchito dalla testimonianza silenziosa di innumerevoli persone che dà vita ad un popolo che cresce e resiste come anima dinamica dello Stato. Certo la religione non può essere mai ridotta a ‘religione civile’, e tuttavia sono innegabili le sue ricadute nella vita pubblica e nello scenario di una società aperta. In questa gigantesca ed entusiasmante opera educativa la Chiesa, non farà mai mancare il suo contributo in continuità con la sua storia millenaria, consapevole di contribuire alla costruzione del bene comune. I recenti “Orientamenti pastorali”, che puntano per l’intero decennio all’educare come banco di prova della maturità del nostro popolo, stanno a dire il rinnovato impegno della comunità cristiana, ben consapevole che l’annuncio del Vangelo è il miglior antidoto a certo individualismo che mette a dura prova la coesistenza e il raggiungimento del bene comune. “Educare alla vita buona del Vangelo” si inserisce nel cammino di sempre che rappresenta un intreccio fecondo di evangelizzazione e di cultura, di valori umani e insieme cristiani, che consentiranno di uscire dal tunnel di quella “cultura del nulla”, vagamente radicaleggiante, che è l’anticamera di una diffusa “tristezza”. Siamo ormai messi di fronte ad una situazione seria e grave, la cui severità richiede di correggere abitudini e stili di vita. Se non si riesce a far emergere le condizioni per un patto intergenerazionale che metta i giovani nei pensieri e nel cuore degli adulti, sarà veramente difficile aprirsi al futuro, atteso il crollo demografico, la cui portata etica e sociale è stata troppo a lungo disattesa.

In tale contesto è necessario riconoscere sempre più e valorizzare la vasta rete del volontariato sociale cattolico. In particolare, ogni soggetto che contribuisce ad alimentare – e se occorre a difendere – la cultura profonda del nostro popolo, merita ogni concreta attenzione e lungimiranza, nella consapevolezza che il venir meno significherebbe l’inaridire dell’anima che dà coesione ed ispirazione, che genera il presente e affronta il futuro, e che alimenta il vivere insieme e lo stesso senso dello Stato.

Un’ultima parola a proposito dell’unità d’Italia vorrei riservarla alla questione delle Regioni. La sussidiarietà è parte integrante del patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa che ha sempre articolato la sua riflessione sullo Stato a partire da due principi complementari: la solidarietà e la sussidiarietà, appunto. Mentre il primo ha avuto facile ascolto anche se non sempre fedele applicazione, l’altro invece ha incontrato ritardi nella comprensione e nell’attuazione pratica. Ciò si deve anche a una ipoteca statalista che ha sacrificato sull’altare della centralizzazione il necessario articolarsi. Il nostro Paese guarda con attenzione ad un federalismo solidale, innanzitutto come espressione di quella unità di destino e di appartenenza che è ormai patrimonio irrinunciabile, radicato ed amato. Nello stesso tempo, guarda al federalismo come risposta ad una società sempre più segnata dalla globalizzazione, da vivere e gestire come un valore positivo per tutti. Ciò peraltro intercetta una risorsa tipicamente italiana che – beninteso – va declinata all’interno di un rapporto chiaro di diritti e di doveri, di modo che si possano portare i pesi gli uni degli altri, ma senza che alcuni debbano solo pagare ed altri solo beneficiare. La sussidiarietà rappresenta una forma di solidarietà in senso verticale perché consente condivisione a partire dalle possibilità di ciascuna realtà regionale, garantisce una maggiore aderenza al vissuto, e una più efficace mobilitazione delle energie presenti ovunque. Le Regioni, dunque, non devono essere viste come un modo surrettizio per tornare a forme preunitarie di campanilismi anacronistici, ma devono garantire una vicinanza più efficace ed efficiente dello Stato al territorio. Questa è la ragione e la misura di quella prospettiva riformista
che ha avviato un ripensamento dello Stato a partire dagli anni ’90 e che oggi suggerisce di essere non subìta, ma interpretata in modo positivo e responsabile da parte di tutti. Potrebbe essere questa una strada per restituire alla nostra amata Patria il suo originario volto di luogo di incontro di sensibilità e tradizioni differenti, pur dentro un chiaro e inequivocabile orientamento culturale che si identifica con quelle radici cristiane, di cui ci sentiamo tutti destinatari e inseparabilmente responsabili.

La Chiesa, che vive e si incarna nelle innumerevoli comunità cristiane sparse sulla Penisola, continuerà ad offrire il suo storico contributo a favore di tutti a partire dal senso di lealtà allo Stato e di coltivazione permanente di quell’umanesimo plenario che trova nel Vangelo la sua linfa perenne.

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ZENIT Staff

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