Un progetto per la gestione nonviolenta dei conflitti

Si occuperà del superamento delle vendette di sangue in Albania

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di Chiara Santomiero

ROMA, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- “Con una guerra – si può dire – a pochi chilometri dalle nostre finestre di Rimini, nacque la consapevolezza della necessità che i civili abbiano voce in capitolo sui conflitti non fosse altro per il fatto che ne costituiscono il maggior numero di vittime”. Ha spiegato così a ZENIT Nicola Lapenta, responsabile per il Servizio civile dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, l’origine, negli anni ’90 in concomitanza con il conflitto nei Balcani, dell’idea della difesa civile non armata.

Il cammino di sensibilizzazione della società civile intorno a questi temi ha portato per la prima volta nei giorni scorsi all’emanazione di un bando da parte dell’Ufficio nazionale del Servizio civile (Unsc) per un progetto che vedrà impegnati i giovani volontari nella gestione di un conflitto con mezzi e modalità non armate e nonviolente.

Il bando per 6 posti è destinato a giovani uomini e donne dai 18 ai 28 anni non superati e scadrà il prossimo 28 settembre in modo da far partire il progetto già a novembre.

In concreto il progetto, realizzato dall’Unsc in collaborazione con la Comunità Giovanni XXIII, Caritas italiana e Focsiv (anche questa co-progettazione costituisce un elemento di novità), si occuperà del superamento delle vendette di sangue in Albania, prescritte dal codice locale di leggi non scritte, il “Kanun”, con la possibilità per chi ha subito l’uccisione di un parente, di ricorrere alla vendetta sui maschi della famiglia allargata dell’omicida fino alla terza generazione.

“Si tratta di un fenomeno – ha spiegato Lapenta – concentrato soprattutto nel nord del Paese. Anche se alcuni rilievi parlano di una diminuzione di questa pratica, resta un coinvolgimento nella rete delle vendette di un rilevante numero di famiglie, da 30 a 100. Questo si traduce in circa 400 persone, i maschi potenziali vittime, costretti a vivere da reclusi per sfuggire all’uccisione”.

“I volontari – ha spiegato Lapenta – si occuperanno innanzitutto di costruire percorsi di riconciliazione costruendo una rete di fiducia con le famiglie. L’azione di civili in situazioni di conflitto produce grandi risultati perché le persone si sentono affiancate nella possibilità di accedere a diritti di cui normalmente non potrebbero usufruire”.

In queste situazioni “la non violenza può essere più difficile ma anche più necessaria”. Ma può essere anche più rischiosa? Sì e no. “Il servizio civile dei caschi bianchi – ha spiegato Lapenta – impegnati all’estero in missioni umanitarie e corpi di pace si realizza sempre in situazioni di violenza strutturale. Molto spesso, infatti, le situazioni di povertà nelle quali interveniamo rappresentano “l’evoluzione” di un conflitto: ne abbiamo solo dimenticato l’origine”.

Un secondo livello di intervento sarà rappresentato dal coinvolgimento della società civile e delle istituzioni, sia albanesi che italiane, sul problema della violenza e della vendetta. “Senza voler insegnare nulla a nessuno – ha affermato Lapenta – riteniamo però di dover condividere le riflessioni che nasceranno da questa esperienza per renderle un patrimonio diffuso”.

Obiettivo più ambizioso del progetto è riuscire a definire un modello di intervento sul campo in situazioni di conflitto per avviare percorsi di riconciliazione. Non si tratta di “scrivere una ricetta per tutti i mali” ma di “selezionare buone prassi che si possono ritrovare in un modello di azione civile nonviolenta in più situazioni”.

Per esempio? “La necessità di partire dal ‘basso’ mettendosi accanto alle persone che subiscono il conflitto nella stessa condizione di precarietà, con la consapevolezza che nessuno ha verità in tasca da insegnare”, il che concretamente significa anche “se non c’è energia elettrica, non c’è per nessuno e se mangiare carne è un lusso ne fanno a meno anche i volontari”. Un modello di gestione del conflitto vuol dire inoltre “la condivisione di un codice preciso: non si agisce come singoli ma come gruppo e le decisioni vengono prese insieme”. A livello più ampio, vuol dire ancora “superare la cortina del silenzio: il controllo delle informazioni su quanto sta accadendo è spesso buona parte del conflitto in gioco”.

A una settimana dalla pubblicazione del bando sul sito dell’Associazione (www.odcpace.apg23.org) si registrano circa 150 accessi al giorno: “c’è un crescente interesse dei giovani verso questo tipo di esperienza – ha concluso Lapenta – ma anche di tutto quel mondo che in questi anni ha continuato a ragionare e credere nella nonviolenza pur non ignorando la realtà dei conflitti in corso”.

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ZENIT Staff

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