di Chiara Santomiero
MONACO, lunedì, 12 settembre 2011 (ZENIT.org).- “Una giovane generazione, precedentemente lasciata da parte, che ha familiarità con i mezzi di comunicazione moderna e che costruisce in rete connessioni personali senza passare per la mediazione di partiti politici o religiosi. Sono credenti ma separano religione e politica. Sono loro ad aver scatenato la rivoluzione e rimangono tuttora la garanzia del perseguimento dei suoi fini iniziali: giustizia, libertà, dignità e lavoro”. Ha descritto così il cardinale Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei copti cattolici, i ragazzi di piazza Tahir, i protagonisti della rivoluzione che nel gennaio del 2011 ha portato alla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak “ponendo termine, dopo solo 18 giorni, a 30 anni di un regime apparentemente democratico, ma di fatto dittatoriale”.
Si è parlato molto di “primavera araba” all’incontro mondiale “Bound to Live Together. Religioni e culture in dialogo” in corso a Monaco di Baviera per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e dell’arcidiocesi di München-Freising.Èevidente, infatti, il legame tra lo sviluppo di questi cambiamenti istituzionali e politici e la convivenza tra popoli e religioni nelle aree già “calde” del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Rivoluzione sequestrata
La “caduta del muro di paura che tratteneva dalla libera espressione delle opinioni e della critica” così come “il risveglio della possibilità di sognare un futuro migliore fondato sui principi di una società democratica”: questi per Naguib gli effetti principali della rivoluzione egiziana ma anche, sul piano religioso “la sparizione delle barriere confessionali, psicologiche e sociali che separavano musulmani e cristiani e che causavano conflitti frequenti, a volte drammatici”.
Tutto ciò è stato molto evidente nei primi tempi ma oggi a che punto si è? Obiettivi iniziali “lontani dall’essere a portata di mano”, mancanza di sicurezza, carovita condizionano pesantemente questa fase preoccupando i cittadini. “L’apparizione e il rafforzamento dei movimenti islamisti come i Fratelli musulmani, salafiti e altri gruppi – ha affermato il patriarca copto – hanno mutato la situazione politica a tal punto da far parlare di una rivoluzione ‘sequestrata’ e sono riapparsi i conflitti tra musulmani e cristiani”. C’è di rassicurante la “Dichiarazione di Al-Azhar e di una elite intellettuale sul futuro dell’Egitto” del 19 luglio 2011, una “chiara presa di posizione della suprema autorità religiosa sunnita che rifiuta lo stato teocratico e appoggia l’istituzione di uno Stato nazionale, costituzionale, democratico, moderno”.
Primavera araba?
Mentre l’Onu diffonde le cifre delle vittime della repressione in Siria – 2600 da metà marzo –, rifiuta la definizione di “primavera araba” Gregorios III Laham, Patriarca di Antiochia dei greco melkiti: “non siamo davanti a una rivoluzione – ha precisato a ZENIT – ma a delle manifestazioni di piazza manipolate dall’esterno che hanno l’obiettivo di aggredire e creare confusione: il governo reagisce per difendersi”. “La Siria – ha proseguito il patriarca di Antiochia – è un paese sviluppato in libertà e democrazia: non per niente negli ultimi cinque anni sono state aperte dieci università europee”. Bisognerebbe, quindi, “concedere al presidente Assad una possibilità in quanto la Siria potrebbe essere davvero uno strumento di pace per il Medio Oriente”. “Più che di rivoluzione – ha ribadito Laham – si deve parlare di lotta tra gruppi sunniti ed alawiti per il potere: assomiglia di più ad una guerra civile”.
“I cristiani – ha affermato il patriarca di Antiochia – non si sentono in pericolo, non c’è stata nessuna ostilità verso di loro, ma temiamo il caos che potrebbe nascere dal rovesciamento del governo in mancanza di una vera alternativa”.
Una road map per la democrazia
“Quaranta anni di soprusi ci hanno dato una visione chiara del nostro futuro”: ne è convinto Fathi Mohammed Baja, responsabile degli Affari politici e internazionali del CNT (Consiglio di transizione nazionale della Libia). A margine del panel “Quale futuro per il mondo arabo?”, Baja ha raccontato ad alcuni giornalisti della situazione del suo paese. “Poiché Gheddafi ha rifiutato qualsiasi altro tipo di soluzione pacifica, siamo costretti a perseguire l’opzione militare finché la Libia non sarà liberata: dopo potremo tornare ad essere un movimento pacifico e lavorare per la democrazia”.
“Oggi – ha affermato Baja – la capitale Tripoli è controllata da noi per il 70%: appena sarà tutta liberata trasferiremo da Bengasi gli uffici del governo di transizione”. “Nella leadership del nostro movimento – ha tenuto a sottolineare Baja – ci sono giudici, professori, esperti di diritto e il Cnt ha una ‘road map’ per la Libia democratica, sia per le questioni militari, sia per tutto il resto, dagli aspetti giuridici e istituzionali, alla giustizia, per evitare vendette, alla stampa, ai tribunali civili”. L’attuazione di tutto questo “dovrà tener conto di una pianificazione in favore delle ampie fasce popolazione colpita dalla povertà”.
“Dal 1995 – ha affermato Baja – la Libia ricava dalla vendita del petrolio 80 miliardi di dollari l’anno: una buona parte dovranno essere impiegati per la ricostruzione e per sconfiggere disoccupazione e analfabetismo”. Per quanto riguarda la possibilità dell’affermarsi di tendenze fondamentaliste islamiche ”è più un timore occidentale, perché in Libia non c’è un movimento fondamentalista, ma un movimento per la liberazione e la democrazia”. ”Noi abbiamo in mente un’alternativa molto chiara – ha assicurato – che è respingere i movimenti violenti e mettere insieme visioni politiche differenti. Vogliamo elezioni libere. Crediamo nel rispetto dei diritti umani e non vogliamo né il fondamentalismo né tanto meno il terrorismo”. ”Per la Libia moderna vogliamo la pace – ha aggiunto il rappresentante del Cnt -. E la gente è d’accordo sul dopo-Gheddafi perché vuole partecipare a una società democratica”.
A proposito dei rapporti della “nuova Libia” con l’ex rais, Baja ha precisato che “quando cattureremo Gheddafi, il suo processo dovrà essere una questione locale libica perché la Corte penale internazionale dell’Aja eventualmente lo processerebbe solo per i crimini che ha commesso dal febbraio di quest’anno in poi ma è dal 1969 che lui uccide la nostra gente e ruba”. “Se dopo la giustizia libica – ha concluso Baja – vorrà farlo anche la Corte dell’Aja, non credo sarà un problema processarlo due volte”.
Il dialogo delle civiltà
“Il mondo arabo aspira alla libertà come tutti gli altri popoli. Ciò che sta avvenendo attualmente è solo l’eco di questa semplice verità”: è la constatazione di Basilios Georges Casmoussa, ausiliare patriarcale siro cattolico di Beirut (Libano). Il problema è che “se le restrizioni politiche e sociali possono essere superate più facilmente, per il mondo musulmano è difficile aggirare le restrizioni religiose”. “La religione – ha spiegato Casmoussa – gestisce tutto nel mondo arabo sia la società che l’individuo” e le restrizioni “presentate in nome di Dio come assolute, vengono imposte sia da politici che sfruttano la semplicità del popolino per i propri scopi, sia da produttori di fatwa spesso casuali che da predicatori di una religione pura e dura, rigida, pietrificata”.
Una religione, ha aggiunto Casmoussa, “che ha paura di tutto, che vive nel terrore di trasgredire la legge, la sharia di Dio, il che porterebbe all’inferno e alla peggiore delle sorti”. Il risultato è: “società chiuse, terrorizzate, ripiegate su se stesse, facili ad usare il takfir cioé il tacciare gli altri di rinnegamento di infedeltà religiosa, aggress
ive, sovversive, espansioniste ad oltranza”.
La buona notizia è che, nonostante appaia predominante, la corrente fondamentalista islamista non è generale. “C’è oggi su Internet, nei media liberi e negli ambienti degli intellettuali – ha spiegato Casmoussa – una corrente moderata e pragmatica che vede nell’estremismo religioso una deformazione, un tradimento e perfino una distruzione dell’Islam”. Occorre quindi “incoraggiare la corrente laica che riconosce l’altro nella sua personalità e nel suo diritto di vivere ed esprimersi, separando la religione dallo Stato”. “Invece dello scontro delle religioni o delle civiltà – ha concluso Casmoussa – occorre incoraggiare il dialogo delle civiltà, il dialogo della vita e porre l’accento su ciò che è comune tra i seguaci delle diverse religioni in materia di dogma, di regole di condotta, di valori e d’appartenenza alla stessa patria”.