Un vero testimone di Cristo cambia il mondo

MADRID, venerdì, 2 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi tenuta il 19 agosto in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid dal Rettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Enrico dal Covolo.

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* * *

Un testimone eccezionale di Cristo nel mondo è Francesco d’Assisi.

Vi riporto subito un episodio che fa pensare. Me l’ha narrato qualche anno fa mons. Pasquale Macchi, il fedele segretario di Paolo VI.

Quasi tutti conoscono una frase, giustamente famosa, di Papa Montini. Dice più o meno così: I giovani d’oggi ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri, o – se ascoltano i maestri – lo fanno perché sono dei testimoni .

Ma sono pochi a sapere quando questa frase venne pronunciata per la prima volta.

Paolo VI la pronunciò sull’onda di una forte emozione.

Era venuto a trovarlo il rappresentante del Laos, un Paese esposto in quegli anni a molte attenzioni interessate delle Superpotenze. Il rappresentante era un monaco buddista. Il bonzo si presentò avvolto nel saio tradizionale, con la testa tutta rasata. Narrò al Papa la situazione del suo Paese. «Santità», gli disse, «vengono da noi gli americani, e ci propongono le tecnologie più avanzate; vengono i russi, e ci propongono le armi; vengono i tedeschi, e ci propongono i soldi… Ma se voi, Santità», e qui il monaco scosse la sua testa pensosa, «se voi ci mandaste un Francesco d’Assisi, noi ci convertiremmo tutti!».

Un Francesco d’Assisi converte tutti. Un vero testimone di Cristo cambia il mondo.

Torna alla mente la testimonianza di Gandhi.

Un giorno sir Stanley Jones – quel giornalista che di fatto trasmise al mondo l’immagine di Gandhi – gli si fece vicino, e gli chiese, così, sui due piedi: «Mahatma, dimmi una parola, che io la porti al mondo!».

Il Mahatma lo guardò, e dopo un lungo silenzio gli rispose imbarazzato: «Ma… Ma io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio…».

Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente.

Noi l’abbiamo la Parola da dire: noi abbiamo il lieto messaggio di Gesù Cristo, noi abbiamo il Credo degli Apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo – stando al testamento di Gesù – non può passare al mondo senza la testimonianza della vita di chi crede in Lui.

Eritis mihi testes, disse Gesù, subito prima di salire al cielo. Voi, voi che credete in me: voi sarete i miei testimoni nel mondo. Voi sarete i testimoni del Vangelo.

Voglio raccontarvi in forma di lectio, come ho già fatto nei giorni scorsi, la storia della vocazione di un testimone eccezionale: è la storia di Giovanni, il discepolo amato.

Non se ne fa mai il nome, lungo tutto il quarto Vangelo. Resta come una casella vuota. Ma ogni discepolo può metterci il suo nome, se decide – come Giovanni – di seguire e di testimoniare il Signore.

1. Lettura

«Due discepoli», leggiamo all’inizio del quarto Vangelo: erano due discepoli del Battista, «si misero a seguire Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, dice: “Che cosa cercate?”. Risposero: “Rabbì – che si traduce ‘maestro’ – dove abiti?”. Rispose loro: “Venite e vedrete”. Andarono, e videro dove dimorava. Rimasero in sua compagnia quel giorno: erano circa le quattro del pomeriggio» (Giovanni 1,37-39).

2. Meditazione

Per svolgere la nostra meditazione ricostruiamo la scena evocata da Giovanni.

Osserviamo anzitutto i personaggi, che compaiono in scena: essi sono il Battista (è da notare però che il quarto Vangelo non usa mai questo termine: così risulta valorizzata in massimo grado la sua funzione di «precursore» e di «testimone»); poi Gesù; infine i due discepoli.

Il personaggio centrale è Gesù: è lui che Giovanni addita.

La funzione del testimone è proprio questa. Quella di accorgersi di Gesù, di riconoscerlo, di additarlo. Così la testimonianza del Battista resta un fondamento sicuro per i cristiani di ogni tempo: anche per noi, oggi.

Nella scena, intanto, Gesù passa, e i due discepoli si mettono a seguirlo: hanno ascoltato Giovanni, erano suoi discepoli, ma seguono Gesù. La testimonianza ha raggiunto ilo suo scopo. Il testimone non lega le persone a se stesso, ma a colui al quale rende testimonianza. Il testimone non parla troppo di sé; neppure ama parlare a lungo delle meraviglie che Dio ha compiuto in lui.

Preferisce parlare direttamente di Gesù.

Seguire non è un verbo qualsiasi. Sul piano esteriore dei fatti potrebbe semplicemente significare che i due discepoli andarono dietro Gesù per sincerarsi della sua identità. Su un piano più profondo e simbolico – che è quello dell’evangelista e del lettore – seguire indica l’adesione del discepolo. Seguire significa camminare insieme, ma dietro, non davanti, né a lato. E’ il Maestro che decide la strada, non il discepolo.

Gesù si voltò e, vedendo che lo seguivano, dice: «Che cosa cercate?». Voltandosi e guardandoli, Gesù prende l’iniziativa. Per guardarli ha dovuto girarsi: un gesto voluto e intenzionale. E il verbo guardare non indica uno sguardo casuale e veloce, ma uno sguardo che si sofferma, indugiando. Gesù ha osservato per qualche istante il cammino dei due discepoli. Dopo un tratto percorso in silenzio, egli pone la domanda decisiva: «Che cosa cercate?».

Sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel quarto Vangelo, e questa è chiaramente la prima domanda che deve essere rivolta a chiunque intende porsi sul cammino di Gesù. La domanda obbliga colui che si è messo in cammino dietro di lui a interrogarsi: che cosa ti attendi da Gesù? Perché lo cerchi?

Con la sua domanda Gesù non chiede chi, ma che cosa. Non dunque: cercate me?, che sarebbe ovvio. Ma: che cosa sperate di ottenere, seguendomi? Che cosa vi ripromettete da me? Gesù interroga non per informarsi, perché egli conosce tutto fin dall’inizio, e penetra il segreto dei cuori. Egli domanda per provocare la risposta, e indurre a prendere coscienza del vero oggetto della propria ricerca.

Cercare esprime la passione, lo slancio, il desiderio che sta al di sopra di tutti gli altri. Ebbene, qual è il tuo desiderio primario? La domanda di Gesù fa capire che si può andargli dietro con desideri sbagliati o insufficienti.

Maestro, dove abiti? Alla domanda di Gesù, che sollecita chiarimenti, i due discepoli rispondono con un’altra domanda.

Il verbo abitare può semplicemente significare risiedere, soggiornare, alloggiare. In questo caso i due discepoli chiedono a Gesù, che passa, dove abita e tiene scuola, dove si può trovarlo. Ma questa è solo la superficie del verbo. Nel quarto Vangelo questo verbo assume un ricchissimo significato teologico: più che indicare l’ambiente materiale, indica l’ambiente esistenziale e personale in cui uno abita. E’ addirittura un termine-chiave del vocabolario giovanneo, ed esprime la profonda comunione con Gesù (la parola-testamento di Gesù ai discepoli, nei discorsi della cena, è proprio questa: «Rimanete nel mio amore»).

A questo secondo livello – che è certo quello dell’evangelista e del lettore – la domanda dei due esprime il senso della vera ricerca: dimorare con Gesù, seguirlo nella sua vita, condividere la sua missione e il suo destino.

Venite e vedrete: in verità, Gesù non dice che cosa vedranno, né quando. E proprio qui troviamo un insegnamento decisivo per la «via del discepolo e del testimone».

E’ stando con Lui che il futuro si dischiude.

Seguire Gesù non significa sapere già dove egli conduce. Un pensiero analogo si trova nei discorsi della cena, quando Gesù dice ai discepoli: «Del luogo dove io vado, voi conoscete la via».

A Tommaso queste parole sembrano nebulose, e sollecita Gesù a spiegarsi meglio: «Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conosce
re la via?». Tommaso è convinto, come tutti, che per conoscere la strada bisogna prima conoscere la mèta a cui si vuole arrivare. Per Gesù è vero il contrario: quando si conosce la via giusta, si giunge anche alla mèta giusta!

La via è seguire Gesù. L’importante è conoscere il cammino: la mèta si troverà alla fine, e di questo bisogna fidarsi. Gesù non è stato nebuloso con Tommaso, ma chiaro. Ha però rovesciato il modo comune di pensare: non prima la conoscenza della mèta, e poi l’individuazione della strada che vi conduce, ma prima la strada.

E i discepoli – su invito di Gesù – vanno, vedono, dimorano.

Andare, vedere e dimorare sono i tre verbi che tracciano la trafila del discepolo e del testimone.

Curiosamente l’evangelista annota l’ora: erano le quattro del pomeriggio.

3. Per la preghiera

Vi invito a pregare sulla vostra storia di vocazione.

Vi invito a rileggerla con sguardo di fede, e a confrontarvi con la storia di vocazione narrata da Giovanni. E’ vero che ogni storia di vocazione è misteriosa e irripetibile. Però nella narrazione giovannea ci sono come delle «strutture portanti», che accomunano molte altre storie di vocazione.

* Per esempio, la chiamata è sempre di Gesù, e determinante è l’incontro con Lui…

* E’ questo un incontro che apre una storia, ma non la chiude.

La correttezza della ricerca – ed è questa la via del discepolo-testimone – non sta nel conoscere già con esattezza la mèta del cammino, ma piuttosto nel porsi sulla strada giusta, nella direzione giusta, disposti a percorrerla dovunque essa conduca. Il difetto di fondo sta proprio nella pretesa di chiudere il cammino, di sapere già: di rinchiudersi dentro il proprio personale progetto, anziché aprirsi alla grazia e alla libertà di Cristo, che sempre chiama.

4. Per la conversione della vita

* Che cosa devo ancora lasciare, per seguire Gesù? Che cosa mi impedisce di «andare», di «vedere», di «dimorare» con Lui?

* Sento e coltivo nella preghiera lo sguardo amoroso di Dio che si appoggia su di me, e che orienta tutta la mia vita?

«Erano circa le quattro del pomeriggio…»: a più di sessant’anni di distanza, Giovanni ricorda l’ora precisa del suo incontro con Gesù. E’ precisamente quella l’ora dell’«invaghimento» del cuore (Novo Millennio Ineunte, n. 33). Il discepolo è anzitutto un innamorato di Gesù, e solo così può essere «suo testimone». Solo così può seguirlo fino alla croce.

Giovanni, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, è l’unico discepolo che segue Gesù fino alla croce: e, davanti al sepolcro vuoto, è il primo a credere nel Risorto.

* Coltivo questo «invaghimento» del cuore con una preghiera che «non si esprime soltanto in invocazione di aiuto, ma anche… in ardore di affetti» (ivi)?

***

Concludiamo la nostra lectio con una giaculatoria che – mentre richiama la necessità di questo «invaghimento» per Gesù – ci conferma, come discepoli e testimoni, nell’impegno di seguire il Maestro fino a Gerusalemme: «Che io ti conosca intimamente, o Cristo», implorava Ignazio di Loyola, «e – tuo compagno nella Passione – possa risorgere con te…».

Oh, sì: che io ti conosca intimamente, o Cristo!

Ed ecco, finalmente, l’identikit del testimone di Gesù.

Ecco la condizione fondamentale, perché io possa mettere il mio nome nella casella lasciata vuota dal discepolo amato: il testimone di Cristo nel mondo è uno che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro; è uno che ha dimorato con Lui; è uno che ha conosciuto Gesù a tal punto, da farne suo, per sempre, il progetto della croce e della risurrezione.

Ma – ancora – il testimone di Cristo nel mondo è uno che non si accontenta di questo.

E’, invece, uno che non si stanca mai di testimoniare con la propria vita la gioia dell’incontro con Gesù, perché la gente – credendo nel nome del Crocifisso Risorto – abbia la vita in Lui (cfr. Giovanni 20,31).


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ZENIT Staff

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