Correzione fraterna: il cuore può più delle parole

Vangelo della XXIII Domenica del Tempo Ordinario

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 2 settembre 2011 (ZENIT.org).- In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18, 15-20).

Mi fu rivolta questa parola del Signore: “O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: ‘Malvagio, tu morirai’, e se tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato” (Ez 33,1.7-9).

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: “La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge,infatti, è la carità” (Rm 13,8-10).

Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta, ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato” (Ez 33,9)

Il più inascoltato dei profeti inviati da Dio per risvegliare gli uomini alla responsabilità della conversione, è stato Gesù stesso. A differenza di ogni altro profeta, tuttavia, Gesù sapeva quello che c’è nel cuore di ogni uomo, e vi leggeva non solamente i peccati commessi, ma anche la sua fragilità e quelle ferite profonde che spiegano spesso certi comportamenti, razionalmente “incomprensibili”. Eppure, in molti casi, non solo le parole del Signore non sono state ascoltate (in primo luogo dai sacerdoti), ma nemmeno i suoi miracoli sono bastati per credere che Egli era veramente il Figlio di Dio.

Emblematico è il caso della guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà: scrive Giovanni che “…per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18).

Il destino di Gesù, non accolto e rifiutato a morte dai suoi (Gv 1,11), era preannunciato nella storia stessa di tutti i profeti che lo hanno preceduto (ad es. Isaia, Geremia, Ezechiele), ed è continuamente attualizzato nel “rifiuto della vita dell’uomo, nelle sue diverse forme” (Enciclica Evangelium vitae, n. 104).

Alla luce di tutto ciò, la lettura del Vangelo di oggi pone un realistico interrogativo: la correzione fraterna, è realmente cosa possibile?

L’esperienza più comune, al riguardo, è che essa è cosa talmente ardua e delicata da sembrare impraticabile, soprattutto all’interno delle comunità dei credenti. Accade, spessissimo, ciò che prevede il Signore: “..e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano” (Mt 18,17).

Il significato di questa conclusione, tuttavia, non è la rassegnazione (“tanto, non c’è niente da fare”), bensì come una speranza purificata, quasi Gesù dicesse: “arrivato a questo punto, cerca di amare il tuo fratello proprio a partire dalla sua condotta, segno di una sofferenza profonda; per essa, in questo momento, si ritrova incapace di ascoltare e di cambiare”.

Al riguardo, Paolo riconosce altrove che tutti “quelli che si lasciano dominare dalla carne” (Rm 8,8), non sono in grado di obbedire alla Parola del Signore; impotenza che riguarda non solo i pagani e i pubblicani, ma anche tutti i credenti che si trovano in balìa della piena tempestosa dei loro sentimenti. Scrive infatti l’apostolo che “ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe” (Rm 8,7).

L’emotivismo è una sorta di cataratta, acuta o cronica, che impedisce alla coscienza il giusto discernimento sulla verità della propria vita, rendendo molto difficile quella correzione fraterna che, se ascoltata, sarebbe apportatrice di pace e riconoscenza perenni. Ma è anzitutto necessaria quella primordiale “correzione fraterna” che è data dalla semplice presenza amorevole accanto alla persona sofferente. Il cuore spesso, corregge più delle parole.

Quante volte gli operatori dei CAV e le mamme aiutate a non abortire hanno testimoniato questa verità!

Detto questo, è anche vero che l’insuccesso di una giusta correzione fraterna, molte volte è dovuto alla modalità infelice con cui viene attuata, rivelata dallo sguardo di chi parla, prima ancora che dal tono o dal contenuto delle sue parole. Altre volte, tuttavia, nonostante l’atteggiamento sincero di accoglienza con cui ci si avvicina al fratello che sta sbagliando, il rifiuto non muta, ed è giusto rispettare dolorosamente il mistero imperscrutabile della persona.

Per ciò, mentre è sicuro che “l’amore non fa alcun male al prossimo” (Rm 13,10), non è detto che riesca lì per lì a fargli quel bene di cui ha bisogno.

Che, a questo punto, ogni cosa sia da rimettere a Colui che, unico, conosce il cuore dell’uomo e può illuminarne la coscienza, lo fa intendere Gesù stesso dicendo: “In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18,18), parole che si riferiscono anche a quell’incontro nel sacramento della Confessione, nel quale il fratello che sta sbagliando, se riconoscerà il suo peccato, sarà corretto direttamente ed efficacemente da Dio, mediante la luce e la grazia dell’assoluzione sacramentale.

Concludendo, Paolo ci fornisce oggi la regola d’oro da adottare in qualunque situazione ci si trovi di correzione fraterna “impossibile”.

Il contesto delle sue parole riguarda il rapporto dei cristiani di allora con le autorità civili, tuttavia il messaggio acquista per noi una luce profonda: “Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” (Rm 13,8). Cosa vuol dire? Che comunque, anche verso il fratello che mi fa soffrire, sono e sarò sempre debitore di quei “diecimila talenti” d’amore e di perdono che a me per primo sono stati condonati dal Signore Gesù (Mt 18,21-35).

Paolo oggi ci fa capire che il debito da riconoscere non è tanto quello del fratello che ha mancato verso di noi, quanto il nostro verso di lui. Infatti egli si trova in una carenza d’amore a causa della quale si è comportato come si è comportato, e, senza il calore della carità, la luce della verità non può da sola diradare la nebbia che grava sulla sua coscienza.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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