di Paul De Maeyer
ROMA, giovedì, 21 luglio 2011 (ZENIT.org).- A soli pochi giorni dal drammatico appello lanciato domenica 17 luglio da Benedetto XVI, le Nazioni Unite hanno decretato mercoledì 20 luglio lo stato di carestia in due regioni del sud della Somalia, il Bakool Meridionale e la Bassa Shabelle. “Se non interveniamo adesso, la carestia si diffonderà in tutte le otto regioni del sud della Somalia nell’arco di due mesi, a causa dei cattivi raccolti e delle epidemie di malattie infettive”, ha avvertito il responsabile dell’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA in acronimo inglese) dell’ONU, Mark Bowden (BBC, 20 luglio).
Nella definizione ONU, “carestia” significa – come spiega l’emittente britannica – che più del 30% dei bambini dev’essere affetto da malnutrizione acuta. Implica inoltre che su ogni 10.000 persone due adulti o quattro bambini muoiono quotidianamente di fame. Il terzo ed ultimo criterio è che l’assunzione giornaliera di cibo da parte della popolazione è molto inferiore a 2.100 chilocalorie.
“In tutto il Paese quasi la metà della popolazione somala – 3,7 milioni di persone – vive ora in una situazione di crisi, di cui circa 2,8 milioni di persone nel sud”, si legge in un comunicato diffuso dall’OCHA. Ma la carestia tocca un’area molto più vasta, dal nord del Kenya e dell’Uganda al piccolo Gibuti ed include anche alcune zone dell’Etiopia e del Sud Sudan. Secondo le stime delle agenzie umanitarie, la fame minaccia in totale quasi 11 milioni di persone nel Corno d’Africa. Le prime vittime sono come sempre i più deboli, per primi i bambini. Secondo l’ultimo bollettino dell’UNICEF [1], nei vari Paesi coinvolti nell’emergenza 2,1 milioni di bambini sono malnutriti, di cui 497.000 soffrono di malnutrizione acuta grave, e sono perciò in immediato pericolo di vita, ed altri 1.649.000 di malnutrizione acuta moderata.
A scatenare l’ennesima gravissima crisi umanitaria è la peggior siccità in sessant’anni che sta colpendo l’intera regione. Alcuni esperti, come Alison Rusinow, direttrice dei programmi della ONG HelpAge International in Etiopia, puntano il dito contro il cambiamento climatico e contro gli “eccessi” nei Paesi sviluppati (The Guardian, 8 luglio), una tesi da confermare. Ciò che distingue l’attuale carestia da quelle precedenti è senz’altro la situazione demografica nel Corno d’Africa, che negli ultimi decenni è cambiata profondamente. Come ricorda la BBC (14 luglio), alcuni Paesi hanno visto più che raddoppiare la loro popolazione. Al momento della grande carestia del 1973 l’Etiopia aveva circa 31 milioni di abitanti. Oggi invece, il Paese deve sfamare 80 milioni di abitanti.
Come ha raccontato al quotidiano La Croix (20 luglio) la portavoce di Action Contre la Faim (ACF) a Nairobi, Lucile Grosjean, le condizioni di vita dei somali si sono peggiorate rapidamente negli ultimi mesi. Dopo una buona raccolta nel 2010, due disastrose stagioni della pioggia – nell’autunno 2010 e nel giugno scorso – hanno costretto molti contadini a vendere i loro capi di bestiame, uno sviluppo che ha fatto crollare i prezzi degli animali proprio nel momento in cui i prezzi degli altri alimenti sono saliti alle stelle. Secondo Yves Van Loo, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Somalia, che ha visitato di recente la capitale Mogadiscio, i prezzi degli alimenti di base – ad esempio il riso – sono aumentati del 300% negli ultimi tre mesi (Libération, 20 luglio).
Ad aggravare gli effetti della siccità in Somalia è l’anarchia che regna nel Paese. Da ormai vent’anni senza un governo vero e proprio, gran parte del sud della Somalia è finito sotto il controllo dei miliziani del movimento islamista al-Shabaab, che dal 2007 combatte il debole governo di transizione appoggiato dalle Nazioni Unite. “Le attività di al-Shabaab hanno chiaramente fatto peggiorare l’attuale situazione”, ha ribadito il sottosegretario di Stato americano responsabile dell’Africa, Johnnie Carson (BBC, 20 luglio). Funesta è stata nel 2009 la decisione del gruppo estremista di cacciare le agenzie umanitarie, accusandole di essere spie occidentali e crociati cristiani.
Costretti dagli eventi, i miliziani jihadisti hanno tolto solo di recente il loro veto agli operatori internazionali e hanno creato persino un “comitato sanitario” (La Stampa.it, 18 luglio). Un primo aereo con aiuti umanitari per conto dell’UNICEF è atterrato mercoledì 13 luglio a Baidoa (o Baydhabo), a 250 chilometri a nordovest di Mogadiscio. Anche il Programma Alimentare Mondiale (WFP) sta per ripristinare i suoi aiuti, interrotti nel 2010. “Una volta che abbiamo le garanzie di sicurezza e la possibilità di avere pieno accesso per fornire, distribuire e monitorare, allora saremo pronti per ritornare”, ha detto all’Associated Press (19 luglio) la portavoce Emilia Casella.
La sciagurata combinazione di siccità, carestia e guerra senza sosta ha provocato un massiccio flusso di profughi. Secondo gli ultimi dati dell’UNICEF, 1,46 milioni di somali sono sfollati all’interno del Paese. Più di 40.000 sono accampati a Safety, il campo profughi allestito a Mogadiscio dal governo somalo e gestito da varie agenzie umanitarie, fra cui l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) e l’ONG britannica Muslim Aid.
Numerosi rifugiati somali si sono riversati nel vicino Kenya, dove nei pressi di Dadaab – nota come la “città della polvere” (Le Figaro, 19 luglio) – i campi di Ifo, Dagahaley e Hagadera accolgono quasi 400.000 persone, un numero molto superiore alla capacità prevista di 90.000. Un quarto campo, denominato Ifo II, è pronto dall’anno scorso ma finora le autorità keniane non hanno ancora dato l’OK per aprirlo. “Abbiamo investito diversi milioni di dollari nella costruzione del campo Ifo II a Dadaab. Rimane vuoto, mentre gli altri campi scoppiano da tutte le parti”, si rammarica il direttore del programma dello UNHCR, Richard Floyer Acland (Neue Zürcher Zeitung, 15 luglio).
Chi ce la fa a raggiungere i campi, arriva spesso in pessime, anzi disperate condizioni, specialmente i bambini. “La metà dei bambini che arrivano nel campo è malnutrita. Alcuni non hanno mangiato per così lungo tempo che anche le flebo non riescono più a salvarli”, ha raccontato alla NZZ il dottor Antoine Froidevaux, di Medici senza Frontiere, che lavora a Dadaab. Impressionante è la storia della trentatreenne Weheleey Osman Haji, arrivata in Kenya dopo aver camminato per 22 giorni con i suoi figli. Al suo arrivo nella città frontaliera di Liboi, la donna ha dato alla luce sotto un’acacia una bambina, a cui ha dato il nome Iisha, cioè Vita. “Non ho mangiato ancora nulla da quando ho partorito”, ha affidato la donna alla BBC (9 luglio).
A spingere molti somali a lasciare il loro Paese è spesso proprio la violenza della milizia di al-Shabaab. “Sono venuti tre uomini che cercavano Osman, mio figlio, per reclutarlo per la jihad contro i cristiani. L’ho acchiappato e sono fuggita con lui”, ha raccontato alla NZZ un’altra “Madre coraggio”, Jawahir Mohammed Hassan, che per salvare il quindicenne ha camminato per 15 giorni e notti prima di arrivare a Dadaab, lasciando suo marito e i suoi altri sei figli a Mogadiscio. “Dicevano che ero ormai abbastanza grande per compiere il mio dovere”, ha detto il ragazzo. “Volevano darmi un kalashnikov e un po’ dollari. Gli stessi uomini hanno ucciso due anni fa mio zio. Come avrei potuto combattere per loro adesso?”.
La storia trova conferma in un rapporto di Amnesty International (AI), pubblicato mercoledì 20 luglio [2]. Intitolato “Sulla linea del fuoco. Bambine e bambini sotto attacco in Somalia”, il documento denuncia in particolare gli arruolamenti forzati di ragazzi-soldati da parte dei miliziani, inoltre il diniego dell’accesso all’istruzione e la violenza gratuita – uccisioni incluse – nei confronti di alunni ed insegnanti. “Quella della Somalia non è solo una crisi umanitaria. E’ una crisi dei diritti umani e u
na crisi delle bambine e dei bambini”, ha spiegato la vicedirettrice per l’Africa di AI, Michelle Kagari (www.amnesty.it, 20 luglio). “Se sei un bambino in Somalia rischi la vita in ogni momento: puoi essere ucciso, reclutato e spedito al fronte, punito da al-Shabaab perché ti hanno trovato mentre ascoltavi musica o indossavi ‘vestiti sbagliati’, costretto ad arrangiarti da solo perché hai perso i genitori o puoi morire perché non hai accesso a cure mediche adeguate”.
Il documento, che è anche critico verso il governo transitorio di Mogadiscio, contiene oltre 200 testimonianze di rifugiati somali in Kenya e a Gibuti, che raccontano di aver scelto la fuga per evitare di essere arruolati da parte di qualche gruppo armato. “Quelli di al-Shabaab sono arrivati una mattina”, ha raccontato una bambina tredicenne. “Hanno detto agli insegnanti che tutti i bambini dovevano essere fatti uscire dalle aule. Un insegnante ha rifiutato di obbedire ed è stato ucciso”. “Era coraggioso, era uno di quelli che stavano dalla parte dei diritti delle bambine”, ha aggiunto la giovane.
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[1] http://www.unicef.it/Allegati/20luglio11_Emergenza_CornodAfrica-Aggiornamento-4.pdf [2] http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/1%252F6%252Fe%252FD.74d959203ac98dac44c5/P/BLOB%3AID%3D5037