di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 13 luglio 2011 (ZENIT.org).- Almeno ventimila sfollati, in maggioranza cristiani. A provocare questa emergenza umanitaria è la ripresa della guerra, che nello Stato di Kachin, situato nell’estremo nord del Myanmar (ex Birmania), oppone l’esercito della giunta militare di Naypyidaw (anche Nay Pyi Taw, come si chiama la nuova capitale) alla guerriglia del Kachin Independent Army (KIA), l’ala armata della Kachin Independence Organization (KIO).
Il KIA, che con i suoi circa 10.000 combattenti è uno dei principali gruppi di ribelli oggi attivi sul suolo birmano, controlla tuttora (nonostante un cessate il fuoco sottoscritto nel 1994 con il regime militare) gran parte dello Stato, il quale condivide un lungo tratto di frontiera con la Cina. Il gruppo si batte dal 1963 per una maggiore autonomia della regione, la cui popolazione è per lo più cristiana ed appartiene all’etnia Kachin (chiamata anche Jingpo o Jinghpaw), un popolo di lingua tibeto-birmana presente nel nordest dell’India e nel sud della Cina. I guerriglieri del KIA hanno respinto anche la proposta lanciata dalla giunta di integrare i suoi combattenti nei reparti della guardia di frontiera birmana.
“Vogliamo un vero Stato federale, ma se il governo usa la forza nei nostri confronti, saremo inevitabilmente spinti dietro le linee del 1948”, ha ribadito secondo The Irrawaddy (12 luglio) un capo militare del KIA, Gun Maw. Riferendosi all’anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna – così spiega il sito della rivista di attualità con sede a Chiang Mai (nel nord della Thailandia) e lanciata nel 1993 da giornalisti birmani in esilio -, l’esponente dei ribelli ha suggerito un ritorno alla situazione dell’epoca coloniale, quando infatti le zone montagnose della Birmania furono amministrate separatamente dai britannici.
La scintilla che ha fatto riesplodere la violenza il 9 giugno scorso è il molto controverso mega-progetto idroelettrico nel bacino del fiume Irrawaddy – essenziale per la coltivazione del riso e tuttora la principale via commerciale del Paese – e dei suoi affluenti. Il Tarpein Hydropower Project – così si chiama – viene portato avanti da un consorzio sino-birmano e prevede la costruzione di una serie di dighe idroelettriche, di cui quella di Myitsone sull’Irrawaddy sarà l’elemento chiave. Come ricorda Églises d’Asie (21 giugno), diventerà la quinta diga idroelettrica più grande del mondo e fornirà a partire dal 2017 energia (da 3,6 a 6 gigawatt, ossia da 3.600 a 6.000 megawatt) a varie province nel sudovest della Cina, in particolare allo Yunnan.
Sin dall’inizio dei lavori, la popolazione locale, sostenuta dai ribelli, si è opposta al progetto, destinato ad avere un impatto disastroso sull’ambiente e sulla vita della gente. Da 47 a 60 villaggi saranno coperti dalle acque e gli almeno 10.000 abitanti rilocati perderanno per sempre le loro case e terre ancestrali. Mentre la giunta militare ha promesso di dare come risarcimento ad ogni famiglia una nuova casa, un televisore, l’equivalente di 100 dollari statunitensi e scorte di riso per sei mesi, le nuove abitazioni messe a loro disposizione sono secondo alcuni testimoni solo “rifugi temporanei” (ACN News, 7 luglio).
Si tratta d’altronde di vere e proprie rilocazioni forzate. “Sono arrivati con 10 camion, un gran numero di poliziotti e rappresentanti governativi di Myitkyina [il capoluogo dello Stato di Kachin]”, ha raccontato all’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN) un abitante di Tang Hpre, il villaggio dove negli anni ’30 dello scorso secolo i missionari della Società di San Colombano per le Missione Estere costruirono la loro prima missione in Birmania. Nel marzo scorso, un centinaio di famiglie di Tang Hpre è stato trasferito “manu militari” al nuovo villaggio di Aung Min Thar, costruito 10 km più a sud.
Mentre ribelli e militari si accusano vicendevolmente della ripresa del conflitto, il governo di Naypyidaw si è espresso solo il 18 giugno scorso sugli eventi. Secondo l’organo ufficiale della giunta, New Light of Myanmar, a “costringere” i militari ad intervenire sarebbe stato un attacco lanciato dalla guerriglia contro il cantiere della diga di Myitsone, durante il quale sono stati minacciati 215 operai cinesi e catturati due ufficiali dell’esercito. Ai commentatori non è sfuggito del resto che l’offensiva delle truppe birmane è stata lanciata solo pochi giorni dopo la visita alla Cina del nuovo capo di Stato del Myanmar, U Thein Sein, svoltasi dal 26 al 28 maggio su invito del suo omologo cinese Hu Jintao per “stringere la collaborazione economica” tra i due Paesi (EDA, 21 giugno).
Le armi non hanno smesso di sparare dal 9 giugno. Secondo fonti locali, fra cui The Irrawaddy (12 luglio), da venerdì 8 luglio l’artiglieria birmana fa fuoco contro la roccaforte ed ex quartier generale del KIA a Pajau, nei pressi della città di Laiza, al confine con la Cina. Alcuni colpi di artiglieria sarebbero caduti addirittura in territorio cinese, così ha detto un portavoce dei ribelli.
Lo scoppio dei combattimenti, che si sono propagati anche nell’adiacente Stato di Shan, e il dispiegamento delle truppe birmane nei pressi della diga di Myitsone per “mettere in sicurezza la zona del cantiere” (EDA, 21 giugno), hanno provocato un crescente flusso di profughi – anche verso lo Stato indiano dell’Aruchanal Pradesh e la Cina -, il cui numero ha superato quota 20.000. Anche se le informazioni che filtrano dalla regione sono sempre più rare – la giunta militare “ha provveduto a tagliare le linee elettriche e telefoniche per gran parte del territorio”, ha raccontato all’agenzia Fides un sacerdote locale (Fides, 24 giugno) -, i militari sono accusati di ricorrere agli “strumenti della pulizia etnica”.
Ad accogliere gli sfollati sono i templi buddhisti e la comunità cristiana, aiutata dalla Caritas, l’unica organizzazione impegnata sul terreno secondo Fides (1 luglio). “Stiamo facendo del nostro meglio per condurre gli sfollati in zone sicure e garantire la loro sopravvivenza. Ringraziamo quanti ci sono vicini e chiediamo le preghiere dei cristiani in tutto il mondo”, così ha affidato sempre a Fides il sacerdote locale. Fonti della diocesi di Banmaw non risparmiano critiche nei confronti della giunta militare. “Il governo non fa nulla per aiutare le migliaia di rifugiati civili, che sono vittime inermi del conflitto. Così fra i 20mila profughi, sono numerosi quelli che stanno morendo per malattie e fame, mentre i militari minacciano chiunque cerchi di aiutare gli sfollati”, così ha detto a Fides (5 luglio).
Mentre le fonti fanno infatti menzione di rappresaglie contro i civili e di stupri sistematici sulle donne Kachin, aiutare gli sfollati non è senza rischi per la comunità cristiana locale, già posta sotto la stretta sorveglianza delle autorità. Come ha riferito da Églises d’Asie (21 giugno), quattro catechisti della diocesi di Myitkyina sono stati arrestati dai militari quando si stavano recando in alcuni villaggi isolati.
La guerra nel Kachin richiama l’attenzione sull’espansionismo cinese nell’ex Birmania. Secondo dati ufficiali, nel solo 2010 il Myanmar ha attratto investimenti stranieri per un valore di oltre 20 miliardi di dollari. In testa alla classifica degli investitori si è piazzata proprio la Cina, con 7,75 miliardi di dollari, seguita da Hong Kong (5,79 miliardi di dollari) e dalla Corea del Sud (2,67 miliardi di dollari). Il primo investitore occidentale è stata la Gran Bretagna, con 799 milioni di dollari (Xinhua News, 26 maggio).
La crescente presenza di commercianti, imprenditori e compagnie cinesi è fonte di preoccupazione all’interno della società birmana. “Dobbiamo stare attenti alla minaccia cinese. E’ importante. Pechino non solo sta distruggendo le nostre risorse naturali, ma sta anche sostenendo e collaborando con lo spietato governo birmano”, ha detto The Irrawaddy (8 luglio) l’attivista e leader del g
ruppo 88 Generation Students, Soe Htun. I cinesi comprano infatti tutto quello che possono acquistare: terreni, case, società e prodotti locali, giada inclusa. Proprio una discussione tra un venditore birmano e cinque acquirenti cinesi di giada è degenerata lunedì 27 giugno nella seconda città del Paese, Mandalay, in una rissa, sedata solo dall’intervento delle forze dell’ordine (The Irrawaddy, 27 giugno). Secondo gli osservatori, i nervi sono tesi: basta un soffio per ritornare al 1967, quando la Birmania fu teatro di gravi disordini anti-cinesi.